La parata del 9 maggio o il mondo all'incontrario di Putin
Il 9 maggio di ogni anno la Russia celebra la vittoria su nazismo e fascismo, alla fine della Seconda guerra mondiale. Il rituale non cambia, ma, quest’anno, la bandiera russa apre la parata sorretta da militari che marciano sotto una neve sferzante fuori stagione. Un provvidenziale colpo di vento gelido spazza le nubi su Mosca proprio quando il ministro della difesa, Sergej Šojgu, passa in rassegna sulla sua auto scoperta le truppe disposte sulla Piazza Rossa come figure di scacchi. Sale sul palco Vladimir Putin e tiene il suo discorso graziato dalle intemperie, mentre un raggio di sole trasforma i fiocchi di neve appena caduti sul suo paltò blu scuro in gocce luminescenti. Appena finisce, pioggia e neve ritornano, poi cessano e tornano ancora, tra squarci alterni di sereno. La variabilità delle condizioni atmosferiche è lo specchio delle incertezze nelle quali si contorce la questione russa su tutti gli scenari – non solo su quello ucraino, ma anche su quello europeo e su quello palestinese, dal 7 ottobre incluso in poi; è l’immagine dell’instabilità con la quale l’Occidente risponde alla sfida lanciata dalla Russia alla società aperta che in Europa abbiamo costruito, dai secoli della ragione e dell’Illuminismo in poi, pagandola lacrime e sangue.
Per la ricorrenza di oggi, Putin ha fatto esporre al Parco della Vittoria alcuni mezzi militari catturati dall’esercito russo sul fronte ucraino. Molti sono di fabbricazione occidentale e la loro origine viene evidenziata nelle targhe descrittive apposte per i visitatori. Questi rottami non sono per sé indizi di vittoria: in ogni guerra vanno distrutti mezzi nemici. L’esporli a Mosca, però, riscalda la narrazione di Putin secondo cui la Russia è attaccata dal mondo intero e in Ucraina reagisce a un’aggressione dell’«Occidente collettivo». Nel suo discorso, il presidente russo definisce l’Occidente revanscista, desideroso perciò di sovvertire la vittoria del 1945 su nazismo e fascismo. La Russia, ha proseguito, farà di tutto per evitare uno scontro globale, ma è sempre pronta alla guerra e sta preparando un futuro di libertà e sicurezza. Intorno a Putin, sulla tribuna, ci sono meno superstiti della Seconda guerra mondiale, per ragioni anagrafiche. Compaiono, invece, gli «eroi» della guerra in Ucraina, tra i quali spiccano in alta uniforme gli autori delle stragi di Buča e di altre carneficine contemporanee.
Putin definisce ancora l’intervento in Ucraina «operazione militare speciale», ma la parola guerra è sempre più corrente fra le autorità e la popolazione, da quando, alcune settimane fa, è stata sdoganata dall’addetto stampa del presidente, Dmitrij Peskov. La giovane cantante Sof’ja Onopčenko, tra i maggiori talenti usciti dalla versione russa di The Voice, presenta oggi il suo nuovo singolo Tam Vojna, «Laggiù c’è la guerra». Solo pochi mesi fa, cantando una canzone con un titolo così avrebbe rischiato la galera. Ora esegue Laggiù c’è la guerra al Palazzo di Stato del Cremlino, durante il tradizionale concerto per il 9 maggio. Nulla è casuale, in queste sottili metamorfosi del linguaggio.
La chiave del discorso di Putin si trova, però, tra le pieghe di quello di due giorni fa per l’inizio del suo quinto mandato presidenziale. Si è rivolto «ai cittadini della Russia di tutte le regioni del nostro Paese, agli abitanti delle nostre terre storiche ai quali è negato il diritto di essere uniti alla Patria». Le «terre storiche» sono tutti gli Stati dell’ex Unione sovietica, ma anche i territori dell’Impero russo fino al 1918, che verso ovest includevano Finlandia e Polonia. Questa affermazione illumina il senso delle azioni di Putin. Gli Stati che si trovano oggi in quelle terre, dall’Ucraina alla Georgia, dai Baltici alla Moldova, sono illegittimi – «fascisti» che usurpano ai popoli il diritto di essere russi. A questi popoli Putin dice: il vostro presidente sono io, questione di tempo e vengo a riprendervi, non importa se lo volete o no. Ne prenda nota chi pensa che l’obiettivo della guerra russa siano il Donbas e l’Ucraina.
È qui che si coglie il senso delle celebrazioni per il 9 di maggio, se vogliamo trovarne uno, dietro la stucchevole retorica della propaganda. La ricorrenza della sconfitta di nazismo e fascismo dovrebbe spingerci, in tutta Europa, a chiederci qual è, oggi, la posizione dell’Occidente libero rispetto ai valori che furono schiacciati dalle dittature del Novecento – non solo quella fascista e nazista, ma anche quelle dell’Unione sovietica e dell’Est Europa. Due guerre, quella in Ucraina e quella in Palestina, ci chiedono dei sì e dei no chiari, per costruire un futuro che non tradisca i principi della società laica e aperta riconquistati alla fine della Seconda guerra mondiale.
Invece, sulle forniture di armi all’Ucraina l’Europa tentenna ancora, per tacere del ritardo accumulato dagli Stati Uniti. Parole chiare contro il pericolo russo pronunciano i governanti del Nord e dell’Est Europa, ma nel resto del continente, con l’eccezione della Francia e Inghilterra, le posizioni restano ambigue. È un segno di un debole ancoraggio ai valori fondamentali che reggono l’eccezione occidentale – ormai bisogna definirla così – fondata sullo Stato laico e di diritto, dinanzi a regimi sempre più invasivi in cui Stato e religione prevalgono sulla centralità della persona.
La Russia, sin dagli anni Novanta, mira a farsi soggetto egemone di un’Europa «da Vladivostok a Lisbona». Se esiste, una tale Europa, è quella fondata sulla sconfitta progressiva delle dittature che l’hanno segnata: quelle di Hitler e di Mussolini nel 1945; quelle di Salazar e Franco negli anni Settanta; quelle comuniste dell’Est tra il 1989 e il 1991. Le celebrazioni della Liberazione «da Vladivostok a Lisbona» dovrebbero simboleggiare la fine di tutti quei regimi, uniti dal disprezzo per i valori della società aperta. Non ovunque è così. Il parallelo fra Russia e Italia è particolarmente istruttivo, due Paesi nei quali la Liberazione si carica di messaggi eterogenei e devianti. In Italia, il 25 aprile è stato segnato più da manifestazioni a malcelato favore di un regime estremista religioso che dalla commemorazione della cacciata di Mussolini; a Mosca il 9 maggio è ormai il luogo in cui proclamare la pretesa egemonica russa, in dispregio di ogni regola di convivenza internazionale. In Russia come nella vicina Penisola, si è sfilato non per la Liberazione, ma per la distruzione dei valori nati da quella sudata vittoria.