La rincorsa americana all’Artico passa dall’acquisto della Groenlandia

Se c’erano dubbi sulle ambizioni coloniali di Donald Trump, li ha fugati Vladimir Putin: «I piani degli Stati Uniti sulla Groenlandia sono seri». Lo ha garantito l’altro ieri a Murmansk, la città russa simbolo della secolare presenza russa nell’Artico - di cui detiene il 53 per cento delle coste - dove ha sede la flotta del Nord. L’ha affermato proprio sullo stesso molo dove Michail Gorbaciov tenne un celebre discorso nel 1987, e indirizzato a Ronald Reagan: «Facciamo del Polo un polo di pace», disse, auspicando il disarmo dei missili a medio raggio dispiegati in Artico. Reagan, nonostante l’URSS fosse prossima al collasso, accolse l’appello, «nel nome dell’eccezionalismo dell’Artico». Cioè lassù non si poteva non collaborare e mantenere la stabilità nonostante tutto, nonostante l’oceano di ghiaccio fosse stato il teatro più caldo della Guerra fredda con i sottomarini nucleari che si davano la caccia come il gatto col topo.
Lo spirito di Gorby ha retto nei decenni sotto molte tempeste, l’Artico è rimasto un luogo speciale. La guerra un’ipotesi tabù, fosse solo per quelle oltre tremila testate atomiche con cui Putin piantonava i suoi 22 mila chilometri di costa polare e le sue immense risorse. Poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina, che ha spinto Finlandia e Svezia a entrare nella NATO, la quale così ora controlla l’altra metà dell’Artico. L’onda d’urto delle cannonate in Ucraina è arrivata come un tornado nell’oceano polare. Ed è finito il tabù della guerra. «Per il dominio dell’Artico potrebbe scoppiare una guerra», ha detto Joe Biden nel 2022. «Spaccheremo i denti a chiunque pensi di sfidare la nostra sovranità. Non esiste Artico senza la Russia e Russia senza Artico», ha risposto Putin.
I toni sono cambiati
Improvvisamente, nelle ultime settimane, i toni sono cambiati. A Murmansk, Putin ha detto che la Russia «rafforzerà la sua leadership» nell’Artico, prendendo atto però che nella regione c’è una competizione geopolitica e ha citato l’esempio delle mire americane sulla Groenlandia. Ma dallo zar non è arrivata alcuna critica a Washington. Perché le trattative tra americani e russi sulla fine dei combattimenti in Ucraina si sono trasformate in una sorta di nuova Yalta per la spartizione degli interessi nell’Artico. Dove la NATO, come l’Europa, non ha voce in capitolo. La Russia ha l’interesse di archiviare le sanzioni che hanno colpito duro soprattutto nello sfruttamento delle risorse di petrolio e gas liquido naturale. «L’Artico è il bancomat di Putin, per il suo progetto neo-imperiale, e questo non possiamo permetterlo», mi avevano detto nel 2023 al Dipartimento di Stato. Senza il soccorso interessato della Cina - il suo nemico storico - la Russia non avrebbe retto. Pechino in poco tempo è subentrata alle imprese occidentali, completando impianti giganteschi. Le banche cinesi hanno investito molti miliardi nei nuovi porti artici russi. La famosa «alleanza senza limiti» tra Putin e Xi Jinping. Pechino ha bisogno di Mosca per sviluppare la rotta marittima polare e consolidare le sue ambizioni geostrategiche in Artico. Anche ambizioni militari. Infatti, nei mesi successivi all’invasione dell’Ucraina, si sono svolte varie manovre navali congiunte in Artico. I cinesi hanno installato sulle coste russe una struttura integrata per la navigazione satellitare basata sulla piattaforma Huawai e il sistema di posizionamento BeiDou, l’alternativa al gps utilizzato dalla NATO.
Kirill Dmitriev, l’uomo forte di Putin nelle trattative con gli americani sull’Artico, ha parlato apertamente di grandi investimenti USA nell’High North russo. Come la sta prendendo la Cina? Questo è ancora un dilemma nella Yalta polare. C’è un piano tra Putin e Trump per tenere Xi Jinping alla larga? Di certo il via libera della Russia - la potenza leader nella regione - per un’affermazione della “sfera d’influenza” americana in Artico, in primis in Groenlandia, è la carta più importante calata da Putin per convincere Trump della sua affidabilità nelle trattative per un nuovo ordine multipolare.
Recuperare posizioni
La Groenlandia è da anni segnata in rosso nelle cartine a Washington. Ci sono certo i molti tentativi d’acquisto dell’isola dai danesi iniziati già nell’Ottocento. C’è la famosa sparata di Trump nel primo mandato che fece sbellicare mezzo mondo e saltare sulla sedia quei diplomatici che sapevano che non era una semplice battuta. Ma già l’amministrazione Biden, senza usare il gergo da sensale di Trump, ha operato in modo muscolare in Groenlandia per impedire ai cinesi di entrare nella partita. Ha fatto pressione sulla Danimarca per bloccare lo sfruttamento del più grande giacimento di terre rare dell’isola da parte di una società sino-australiana, per stracciare i contratti già firmati dai cinesi per la costruzione di due aeroporti. Poi l’apertura della sede diplomatica a Nuuk, la lillipuziana capitale groenlandese. Gli inuit avevano rapporti privilegiati e spregiudicati con Pechino, che abilmente aveva accettato di importare quelle pelli di foca che l’Unione europea ha sempre vietato: una decisione che portò la Groenlandia nel 1982 a uscire dalla UE molto prima della Gran Bretagna.
I piani di Trump sono «seri», come garantisce Putin. Prendendosi la Groenlandia, gli Stati Uniti recupererebbero tutte le posizioni e il tempo persi nella contesa in Artico. Basti pensare al numero delle rompighiaccio - metro di misura per giudicare le potenze artiche - che danno la Russia-USA 43 a 2. Il ritorno alla politica delle cannoniere (dove si sparano per ora solo visite e parole, anche se dalla portata devastante) trova l’Europa stordita e divisa. Difficile prevedere se Copenaghen e Bruxelles avranno la forza per fermare Trump, ma conoscendo la realtà dell’isola e il prevalente e insanabile rancore degli inuit per il passato coloniale danese non è azzardato pensare che la Groenlandia in qualche modo diventerà una nazione associata agli Stati Uniti. Rispetto ai 550 milioni di euro di sostegno danese per i 56 mila groenlandesi, Trump può mettere sul piatto miliardi di dollari e varie soluzioni giuridiche, tipo Isole Marshall, Isole Vergini, Porto Rico, Hawaii etc. Con il silenzio assenso dello zar dell’Artico la partita sarà tutta nordamericana. Perché le tensioni diplomatiche e la guerra commerciale tra Stati Uniti e Canada sono destinate ad avere pesanti ripercussioni in Artico dove finora c’è stata una consolidata collaborazione soprattutto militare, con caccia canadesi attivi nella sorveglianza dell’Alaska e truppe speciali statunitensi impiegate nelle esercitazioni alla guerra bianca insieme ai ranger nello Yukon. Già è ritornata a emergere con forza la questione del Passaggio a Nord-Ovest, che secondo Washington non è una rotta canadese ma internazionale. Già il nuovo premier Mark Carney vuole sfidare Trump a destra annunciando vaste esplorazioni e sfruttamenti di idrocarburi e minerali nell’High North, stracciando l’impegno di moratoria preso dal predecessore Justin Trudeau. E poi se la Groenlandia dovesse diventare in qualche forma territorio USA c’è il grande interrogativo su quel gigantesco spazio marittimo (protetto) tra l’isola e l’arcipelago artico canadese che finora è stato condiviso dalle popolazioni indigene della regione e mai definito da un confine. Nei giorni scorsi, sui giornali di Toronto, sono apparse mappe dove si segnalavano le potenziali risorse di questa fetta di Grande Nord fantasma.