La rivolta in Bangladesh: ecco cosa sta succedendo

È caos totale in Bangladesh, dove le proteste studentesche si sono ormai trasformate in un'insurrezione. «Centinaia» di detenuti sono stati liberati in un assalto violento contro un carcere nel distretto di Narsingdi, vicino alla capitale Dacca, che è stato poi dato alle fiamme.
La protesta dilaga nei sobborghi della grande megalopoli di 20 milioni di abitanti e in metà dei 64 distretti in cui è suddiviso il Paese, mettendo a dura prova le forze di sicurezza, che hanno sparato sulla folla, uccidendo almeno 110 persone in meno di una settimana. La situazione è precipitata dopo che la polizia ha annunciato l'arresto di Ruhul Kabir Rizvi Ahmed, uno dei leader del Bangladesh Nationalist Party (BNP), il principale partito d'opposizione, che secondo la polizia deve rispondere di «centinaia di accuse». Internet è stato disattivato, è stato mobilitato l'esercito e nella serata di ieri è stato dichiarato il coprifuoco generale su tutto il Paese (oltre 171 milioni di abitanti).
Quest'oggi i soldati hanno pattugliato le strade deserte della capitale, istituendo posti di blocco durante il coprifuoco imposto in risposta alle proteste. I servizi Internet e di messaggistica sono stati sospesi, isolando il Paese, mentre la polizia ha iniziato a reprimere i manifestanti che sfidavano il divieto di raduni pubblici, in alcuni casi sparando sulla folla. Oltre ai morti, gli scontri hanno causato migliaia di feriti, stando agli ospedali di tutto il Bangladesh. La polizia da 5 giorni sta sparando gas lacrimogeni, proiettili di gomma e granate assordanti per disperdere i manifestanti che attaccano gli agenti con pietre e altri oggetti contundenti, dando fuoco ai veicoli che incontrano sulla loro strada. Il portavoce della polizia di Dacca Faruk Hossain ha dichiarato che «almeno 150 agenti di polizia sono stati ricoverati in ospedale. Altri 150 hanno ricevuto cure al pronto soccorso», aggiungendo che le forze dell'ordine hanno dovuto affrontare «centinaia di migliaia» di manifestanti.
La rivolta sfida apertamente la prima ministra Sheikh Hasina, 76 anni, che in 15 anni di potere ininterrotto ha creato un regime autocratico nel quale - accusano gli oppositori - «ogni spazio di dissenso è stato brutalmente cancellato». Una sfida che si ripete nelle piazze da mesi con cadenza quasi quotidiana e che ha preso di mira uno dei grimaldelli del potere di Hasina e del suo partito, l'Awami League, cioè le quote nella pubblica amministrazione riservate ai discendenti dei veterani della guerra di liberazione del 1971 contro il Pakistan: un sistema che taglia fuori chi non è sostenitore del partito al potere, proprio mentre i giovani faticano a trovare lavoro. Hasina, che in gennaio ha ottenuto un quarto mandato consecutivo dal 2009, è accusata di aver creato un sistema di potere che somiglia a una fortezza impenetrabile e che annovera fra le sue armi anche l'arresto illegale, il rapimento e l'uccisione extragiudiziale di critici, oppositori e attivisti in un Paese economicamente e socialmente disastrato, povero e soggetto alle devastanti alluvioni causate dalle piogge monsoniche.
«Si tratta dell'esplosione di un malcontento della popolazione giovane che sobbolle da anni per una sottrazione continua di diritti economici e politici», secondo Ali Riaz, professore dell'Illinois State University. «Le quote lavorative sono diventate il simbolo di un sistema marcio e rivolto contro di loro», ha aggiunto l'esperto, interpellato dall'AFP.
Molti leader dei partiti di opposizione, attivisti e studenti manifestanti sono stati arrestati, ha fatto sapere Tarique Rahman, presidente ad interim in esilio del principale partito di opposizione Bangladesh Nationalist Party. La polizia ha arrestato Nahid Islam, un importante coordinatore studentesco, alle 2 di notte di sabato, hanno riferito i manifestanti in un messaggio di testo. "Il crescente numero di vittime è una scioccante accusa all'assoluta intolleranza mostrata dalle autorità del Bangladesh nei confronti delle proteste e del dissenso", ha affermato Babu Ram Pant, vicedirettore regionale per l'Asia meridionale di Amnesty International, uno dei tanti gruppi per i diritti umani che hanno criticato la gestione delle proteste da parte del governo.