La sconfitta di Victoria's Secret
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Victoria’s Secret sta per tornare Victoria’s Secret, nel senso di un marchio identificabile con un modello tradizionale di donna sexy e non con una generica bellezza, spesso nemmeno bellezza, inclusiva. Un cambio di rotta che va al di là dei gusti personali in fatto di lingerie e che rappresenta una sconfitta per la cultura woke. Non una novità, quando si esce dalla bolla dei media, delle università e del sedicente ‘mondo della cultura’. Cosa è successo?
Inclusività
È successo che il fatturato previsto per il 2023 di Victoria’s Secret è di 6,3 miliardi di dollari, cioè 1,1 in meno di quanto fosse 3 anni fa e con una tendenza nettissima verso il basso. Siccome molte donne non hanno smesso di indossare un certo tipo di lingerie e molti uomini non hanno smesso di regalarlo, l’azienda ha fatto le sue ricerche di mercato e ha quindi annunciato la clamorosa svolta, puntando di nuovo sul sexy sia a livello di testimonial sia di comunicazione. Eppure soltanto nel 2018 erano state cancellate le sfilate con i mitici ‘Angeli’ per inseguire una sobrietà e un’inclusività che certo non erano mai state nella cultura dell’azienda. Si era in pieno #MeToo, fra le altre cose, e tutto venne tradotto con sfilate di modelle con taglie forti e anche molto forti, di transgender, di disabili o anche soltanto di donne normali. Insomma, negli ultimi 5 anni Victoria’s Secret ha cercato la quadratura del cerchio: vendere mutande sexy ma senza dirlo e usando i testimonial giusti, da Paloma Elsesser a Megan Rapinoe. E quando è stata coinvolta Naomi Campbell lo si è fatto per farle leggere una poesia.
Donne
La storia di Victoria’s Secret è molto interessante, anche perché oggi difficilmente potrebbe iniziare. Per lo meno a San Francisco, forse la capitale mondiale della cultura woke, dove nel 1977 Roy e Gaye Raymond, marito e moglie, si misero in testa di rendere sexy la biancheria intima di uomini e donne e soprattutto di rendere socialmente accettabile questo concetto, fino a quegli anni considerato ai confini della perversione. Il successo è immediato e i Raymond vendono a Leslie Wexner, che ha un’altra intuizione: lasciare la biancheria intima maschile, mercato più limitato, e puntare soltanto sulle donne e su una certa idea di donna, rispettando ideali e misure (presunte, perché gran parte del catalogo Victoria’s Secret è basato sul camuffamento) classici. Il resto è storia, con i negozi propri o in franchising un po’ in tutto il mondo, superando nel 2016 i 12 miliardi di dollari di fatturato e finendo nel 2020 nelle mani dell’inevitabile fondo di private equity, Sycamore Partners, che si trova già servita la svolta woke e va su questi binari fino a rendersi conto che si vende esattamente la metà rispetto ai tempi d’oro, che a ben vedere sono arrivati fino a pochissimi anni fa.
Angeli
Il successo di Victoria’s Secret si è basato su un’immagine sessualizzata della donna e paradossalmente ha tratto benzina dal femminismo prima e dal politicamente corretto poi: in fondo le critiche erano tutta pubblicità gratuita, e addirittura davano a Victoria’s Secret l’aura del proibito, del peccaminoso. Tutto aveva l’immagine delle Victoria’s Secret Angels, che hanno davvero dettato molte tendenze dalla fine degli anni Novanta fin quasi ai giorni nostri: Helena Christensen, Laetitia Casta, Heidi Klum. Gisele Bundchen, Karen Mulder, Stephanie Seymour, Daniela Pestova, ma soprattutto, vista la loro durata in carica, Alessandra Ambrosio e Adriana Lima. Le cosiddette supermodelle, non anonime indossatrici ma donne con una propria fortissima identità, conosciute anche da chi non ha mai aperto una rivista di moda. Ed infatti, saltuariamente, sono state coinvolte nel mondo Victoria’s Secret anche Claudia Schiffer, Eva Herzigova e Naomi Campbell, cioè LE supermodelle, del tutto competitive con una concorrenza fatta da potenziali loro figlie. Comunque donne femminili, che magari esaltavano la forza ma senza metterla in alternativa alla bellezza. Non è un caso che l’era della Lima si sia chiusa nel 2018, nel nome di testimonial più politici e di modelle meno note, come se Victoria’s Secret quasi si vergognasse della filosofia che l’aveva portata al successo mondiale. E del 2018 è anche l’ultima edizione del Victoria’s Secret Fashion Show, incredibile (per i grandi nomi tutti sullo stesso palco) concentrazione di moda, musica e glamour.
Woke
Il presente di Victoria’s Secret sembra un caso da manuale del cosiddetto ‘Go woke, go broke’: in sostanza ‘Per avere buone critiche perdi di vista il pubblico’. Con un’aggravante: questa azienda di lingerie, profumi e accessori non è nata, come ad esempio tante aziende tech, con la retorica dei buoni, con il ‘Don’t be evil’ stile Google. È nata onestamente per vendere un prodotto ad una fascia di mercato che lo richiedeva, quindi i pur fondati discorsi sull’inclusività e sull’immagine stereotipata delle donne sono sembrati falsi, la classica mossa consigliata da consulenti di marketing. Una mossa suicida come quella della Budweiser con il transgender Dylan Mulvaney. Questo non significa che la ‘vecchia’ Victoria’s secret fosse il bene, contro il male del politicamente corretto: anzi, al di là dei rapporti fra Wexner e Jeffrey Epstein l’azienda ha sempre veicolato una cultura maschilista, per quanto apprezzata da una significativa percentuale di donne, che sempre più persone considerano fuori dal tempo. Ed infatti molti clienti di Victoria’s Secret apprezzano l’ironia, decisamente involontaria, più del messaggio sessuale in sé come se la lingerie in sé bastasse a tenere in piedi una relazione (divorziarono anche i due fondatori, fra l’altro). E quindi? La lezione è chiara: non tutto può essere ridotto a ideologia, non si può far sentire in colpa chi compra un reggiseno. Siamo nella nuova era di Barbie, di una donna indipendente che gioca sia con la vecchia immagine della donna oggetto sia con i suoi critici. Chissà se la nuova Victoria’s Secret la intercetterà.