Il punto

La sfida dell'Ucraina alla COP28: «Chi pagherà per i danni alla diga di Kakhovka?»

Una delegazione ucraina, a Dubai, sta promuovendo una campagna senza precedenti nella speranza che Mosca venga riconosciuta legalmente responsabile di crimini di guerra ambientali
Samantha Power e John Kerry con il delegato ucraino a Dubai Oleksii Riabchyn. © AP
Marcello Pelizzari
11.12.2023 10:30

«Chi pagherà?». La domanda, non priva di retorica, è stata posta da Oleksii Riabchyn, ex parlamentare ucraino e membro della delegazione di Kiev alla COP28 negli Emirati Arabi Uniti. E ancora: «Chi pagherà per i danni alla diga di Kakhovka? Chi pagherà per le emissioni di carbonio in Ucraina causate dalla guerra?». La missione dell'Ucraina alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, quest'anno, non è minimamente paragonabile a quelle degli altri Paesi. Lo hanno constatato, fra gli altri, anche l'inviato statunitense per il clima John Kerry e la direttrice dell'Agenzia americana per lo sviluppo internazionale Samantha Power, durante una visita al padiglione ucraino. Sì, Kiev ha posto l'accento sui risultati ottenuti nella transizione energetica – ne avevamo parlato qui – ma a Dubai sta soprattutto promuovendo una campagna considerata senza precedenti nella speranza che la Russia venga riconosciuta legalmente responsabile di, citiamo, crimini di guerra ambientali. «L'ambiente non deve più essere una vittima silenziosa della guerra» ha dichiarato a Semafor Maksym Popov, procuratore a capo dell'indagine.

L'impresa, certo, è titanica. E in termini di raccolta delle prove e, ancora, di responsabilità finale dei singoli ufficiali russi. Secondo gli esperti, tuttavia, le richieste ucraine sono legittime e fondate sul diritto internazionale. Non solo, potrebbero fungere da precedente storico affinché la Corte penale internazionale, in futuro, possa perseguire con maggior incisività e facilità i danni e le responsabilità ambientali in futuro.

Il motivo principale per cui i crimini contro l'ambiente, durante un conflitto, finora non sono stati perseguiti – banalmente – è la guerra stessa. La maggior parte dei governi sotto assedio, come ha spiegato sempre a Semafor Ruslan Strilets, il ministro dell'Ambiente ucraino, non ha potuto né voluto documentare i danni in tempo reale. Per contro, sin dai primi accenni di invasione Kiev ha compreso che la distruzione delle sue risorse naturali da parte dell'esercito russo rientra in una strategia più ampia, orchestrata dal Cremlino e volta a minare l'economia, la salute pubblica e l'identità nazionale dell'Ucraina. Di qui la decisione di documentare (anche) l'impatto ambientale della guerra, il cui costo è stato stimato per ora a 60 miliardi di dollari. «Non vogliamo perdere nessuna informazione su questa guerra, perché è assolutamente impossibile ottenere i risarcimenti dall'aggressore senza dati corretti» ha detto Strilets. «Vogliamo che le nostre metodologie siano concrete e verifichino il conto che daremo alla Russia in futuro».

Un compito, questo, che spetta principalmente a Popov, alla guida di una fra le più grandi squadre investigative nella storia del Paese. L'obiettivo, ha raccontato a Semafor, è dimostrare che l'invasione russa ha causato «danni diffusi, a lungo termine e gravi all'ambiente naturale». Un crimine di guerra, appunto, secondo la Convenzione di Ginevra. Fra le prove raccolte figurano campioni di suolo contaminato, ma anche documentazioni dettagliate circa la fauna morta oltre alla mappatura delle zone di foresta distrutte dal passaggio di carri armati o dai bombardamenti. Finora, l'Ucraina ha individuato oltre 250 episodi che potrebbero rientrare fra i cosiddetti crimini di guerra ambientali. Ma le difficoltà, evidentemente, non mancano: molte delle aree danneggiate sono minate, sottoposte a continui bombardamenti o occupate dai russi. Non solo, riuscire a individuare il singolo ufficiale dell'esercito di Mosca che ha ordinato un determinato atto di distruzione è complicatissimo. 

Serviranno anni, insomma. Ma la determinazione, fronte ucraino, non manca. Kiev, in particolare, intende sottolineare e dimostrare come non debba (più) esserci separazione fra le persone e l'ambiente. L'Ucraina, a Mosca, chiede altresì un risarcimento per le emissioni legate alla guerra: 150 milioni di tonnellate di CO2, dati della Kyiv School of Economics alla mano, derivanti dal consumo di carburante, dalla ricostruzione di edifici e dalla deforestazione. Un passo, questo, ancora più complicato. A maggior ragione se consideriamo che l'impatto climatico non è esplicitamente menzionato dalla Convenzione di Ginevra. 

Se il padiglione ucraino, a Dubai, pone l'accento sui disastri ambientali causati dai russi in quasi due anni di guerra, l'installazione russa non fa alcun riferimento alla guerra. Il padiglione della Federazione è stato descritto come una sorta di pubblicità immersiva per la società statale attiva nell'energia nucleare, Rosatom. È questa, par di capire, la sola risposta che Mosca intende dare alla questione climatica: investire nel nucleare e farlo sfruttando le tecnologie russe. Lo stesso Vladimir Putin, mercoledì, ha sì visitato gli Emirati Arabi Uniti ma non il vertice, preferendo un incontro con il presidente Sheikh Mohamed bin Zayed Al Nahyan ad Abu Dhabi per discutere, manco a dirlo, di petrolio. A ribadire che sì, quel giorno c'era un elefante nella stanza è stato John Kerry. Il quale, con ironia, ha fatto un complimento al leader del Cremlino: «In virtù di ciò che ha fatto in Ucraina, ha accelerato da solo la transizione energetica in Europa più di chiunque altro».