Il caso

«La solitudine ha vinto su Maradona, a Napoli non sarebbe mai accaduto»

Prosegue il processo in Argentina a sette tra dottori e infermieri per la morte dell’ex fuoriclasse del pallone - I dettagli di quei giorni di agonia hanno generato un’ondata di dolore in chi lo ha amato - Il grande scrittore napoletano Maurizio de Giovanni: «Non lo avremmo mai lasciato solo»
©Rodrigo Abd
Paolo Galli
07.04.2025 06:00

Ore e ore di agonia. Giorni, forse. La morte di Diego Armando Maradona va oltre la tragedia di una morte troppo a lungo annunciata, e quindi in qualche modo accettata come naturale. Ora scopriamo che, probabilmente, così naturale non è stata. O che perlomeno era evitabile, quel giorno di cinque anni fa. Era il 25 novembre del 2020. Maradona aveva sessant’anni, sessant’anni vissuti tra gli eccessi. D’altronde lui arrivava da un mondo parallelo. Non avrebbe mai potuto, su questo mondo, vivere una vita comune.

«Si poteva evitare»

«Edema generalizzato dalla testa ai piedi, disidratazione, liquido nel cuore, nei polmoni, nell’addome. Diego è rimasto in agonia per 12 ore e il suo cuore pesava 503 grammi, il doppio del peso normale». È stato questo il verdetto del medico Carlos Mauricio Cassinelli, uno degli esperti forensi dell’obitorio di San Fernando. Fernando Burlando, l’avvocato delle figlie di Maradona, Dalma e Giannina, ha rincarato la dose: «Nei polmoni e nel cuore di Diego c’erano quattro litri di liquido: l’edema non era frutto di un’emergenza improvvisa. La sua morte si poteva evitare». E poi ha riassunto così il concetto: «Lo hanno trattato come un animale. Ciò che è emerso in tribunale dimostra chiaramente che Diego è stato trattato in modo disumano». Fa pensare a quel film di Sydney Pollack del 1969, «Non si uccidono così anche i cavalli?». Ai cavalli si spara quando non sono più utili, quando il costo per curarli supera i benefici, o quando non c’è più speranza. Ma perlomeno si evita loro l’agonia. Qui il processo contro il team di medici che ha seguito Maradona è ancora in corso. Ma quel che è certo è che la sua morte è stata drammatica, traumatica, violenta nella sua natura. Lo sarebbe stata per chiunque, al suo posto. Poi lui era Maradona.

«Qualcosa di identitario»

«L’amore, sapete, non muore. Mai». Chiudeva così, il suo ricordo, Maurizio de Giovanni, cinque anni fa sul Corriere della Sera. Poche righe più su, scriveva il passaggio più bello, e più intenso: «Non è possibile lasciarlo andare. Perché un cuore così grande da contenere tutti i bambini del mondo, da rotolarsi nel fango in un’amichevole al culmine della propria gloria, sfidando la sorte e gli infortuni, per trovare i soldi per operarne uno gravemente malato, non si fermerà mai e continuerà a battere nei sogni di ogni innamorato del pallone, perché del pallone è l’essenza stessa». Lo chiamava «il grande ribelle». De Giovanni è nato a Napoli, dove solo per caso non è nato Maradona. Come foto profilo su WhatsApp ha una bandiera argentina che sfuma nel profilo di Napoli. È lo scrittore di Napoli, e il tifoso del Napoli, per eccellenza. «È un dolore», esordisce, al telefono. «È un dolore enorme, fortissimo. Napoli è un Pantheon, ha un gruppo di persone, di personalità, che mette nel proprio personale tempio e che continua ad adorare. Penso a Pino Daniele, a Massimo Troisi, a Totò. E Maradona è l’unico, non di nascita napoletana, ad appartenere a questo Pantheon. Per Napoli, per i napoletani, per tutti quelli che hanno a cuore questo territorio, la fine di Diego e quelle modalità sono una ferita inaccettabile, che continuerà a sanguinare per anni e anni. Noi, qui in città, abbiamo la convinzione, forse folle, forse assurda, che se Diego fosse vissuto qui, non sarebbe mai morto in quel modo. Perché l’amore che questa città tutta ha portato e porta e porterà per Diego Armando Maradona è enorme. È qualcosa di profondamente identitario. Diego Armando Maradona fa parte dell’identità culturale di questa città, è l’uomo che ha insegnato a questa città che poteva vincere». De Giovanni fa una precisazione: non alla squadra di calcio, ma alla città. Questa precisazione è decisiva, per capire l’amore di Napoli nei confronti di Maradona. «Lui ha insegnato a questa città, che era in ginocchio dopo il terremoto, quindi nel momento forse peggiore della sua storia recente, dal Dopoguerra, che poteva rialzarsi. Maradona ha mostrato a questa città che poteva vincere, sì. Un insegnamento che non abbiamo mai dimenticato e per il quale gli porteremo sempre un’enorme gratitudine. È questo il motivo del nostro dolore attuale, il motivo della nostra sofferenza nel vedere quelle immagini terribili, violente, atroci del suo corpo devastato. Non possiamo dimenticare. Ora ci auguriamo che chi deve pagare, paghi carissimo, e mi riferisco a quella gente che gli gravitava attorno nel momento in cui più aveva bisogno di aiuto. E nessuno lo ha aiutato. Non riusciremo mai a dimenticarlo».

Il bisogno d’amore

Napoli lo avrebbe protetto. Buenos Aires non lo ha fatto. Questo, riassumendo, il senso del discorso di de Giovanni. «Io poi non sono di Buenos Aires, non vivo lì, però sono napoletano e vivo a Napoli, e le posso garantire che se fosse vissuto a Napoli, non sarebbe mai rimasto solo. Mai, in nessun caso. Avrebbe avuto tutto l’amore che tutti noi portiamo a lui. Vorrei dirle una cosa che le sembrerà strana, ma all’indomani del terzo scudetto, quello del 2023, il calciatore più celebrato del Napoli è stato senz’altro Diego Armando Maradona. L’immagine più condivisa è stata la sua. La maglietta più venduta è stata la sua. Non c’è mai stato e mai ci sarà un calciatore, anzi un condottiero, più profondamente identitario per questa città». Pensare alla sofferenza, fisica e interiore, di Maradona riaccende la consapevolezza di un calcio, il suo, intriso di malinconia. Chiediamo a de Giovanni se sia una forzatura, un simile accostamento. «Non lo è affatto. Guardi, la chiave per comprendere ciò che è accaduto è il bisogno d’amore. Non c’è stato un uomo che abbia manifestato un maggiore, un più potente, bisogno d’amore di Diego Armando Maradona. Lui si circondava di persone sbagliate perché aveva bisogno di essere amato. Un bisogno quasi patologico d’amore. Lui aveva un bisogno d’amore enorme, e questo bisogno d’amore concordava con l’enorme gettito economico generato dalla sua persona, che veniva espanso attraverso questa enorme corte di finti amici che lo circondava e che, a fronte dell’espressione di una falsa adorazione, riscuoteva un rendiconto economico e di risorse. Ma è il bisogno d’amore, la chiave per capire. Il suo terrore era la solitudine, che è stata, in definitiva, ciò che lo ha ucciso. Paradossalmente, alla fine, la solitudine ha vinto su Diego».

«Chi lo ha amato davvero?»

Fernando Burlando, l’avvocato delle figlie, insiste sul possibile legame tra la morte del Diez e la caccia alla sua eredità. «La morte di Diego Armando Maradona sta generando guadagni a terze persone che non sono gli ereditieri. Si tratta di gente che stranamente ha firmato un contratto per ottenere benefici dopo la sua morte e che adesso vive di lui». De Giovanni riflette: «Io mi chiedo chi c’era con lui. Chi di quelle persone che oggi accampano diritti e che allungano le mani era al suo fianco? Questo è il punto centrale. Io ho i miei affetti, ho le persone che amo e che credo mi amino, lei ha i suoi, la sua famiglia, i suoi amici. Una morte come quella, come si inquadra in una famiglia, in un gruppo? Mi dica lei, mi faccia capire chi può dire di averlo amato davvero, se è morto come è morto». Maradona ha un senso per tutti noi, anche nelle nostre vite, anche di chi non è napoletano o tifoso del Napoli. «Ecco, professore, che cosa ci dice questa morte?», chiediamo a Maurizio de Giovanni. «Ci dice che questa epoca, segnata dall’assenza di solitudine, in cui siamo sempre tutti connessi, è in realtà l’epoca più solitaria. Questo ci dice. Tutti noi, di fronte a questa morte e alle modalità di questa morte, dovremmo chiederci: ma siamo sicuri che a me non succederebbe mai?».

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