«La soluzione in 100 giorni»: Kiev spera, Mosca è prudente
«L’Amministrazione Biden stava allungando le cose, rallentando l’uso delle armi. Qualcosa deve cambiare. C’è ottimismo. Gli ucraini con cui parlo ritengono Donald Trump un leader forte, mentre Joe Biden a volte non riusciva a mettere insieme una frase». Queste parole - riportate dal portale Politico - sono di Steven Moore, fondatore dell’Ukraine Freedom Project. L’Ucraina sembra affidarsi al nuovo presidente americano nella speranza di una rapida svolta nella guerra. E questo aspetto sfiora il paradosso, se pensiamo a come lo stesso Biden sia stato a lungo il maggiore alleato di Volodymyr Zelensky. E anche a come l’elezione di Trump fosse vista inizialmente come uno spauracchio per Kiev. L’etichetta di «amico di Putin», che non corrisponde del tutto alla realtà dei fatti, ha certo pesato sul preconcetto.
Il botta e risposta
D’altronde, lo stesso Trump rimane interlocutore imprevedibile. Pochi si aspettavano, già mercoledì - al terzo giorno da presidente bis -, la strigliata all’omologo russo. «Non sta facendo una bella figura. Penso che farebbe bene a porre fine a questa guerra». E poi ancora: «Farò alla Russia, la cui economia sta fallendo, e al presidente Putin, un grande favore. Negozia ora e ferma questa ridicola guerra! Non farà che peggiorare. Se non facciamo un accordo, e presto, non avrò altra scelta che imporre alti livelli di tasse, tariffe e sanzioni su qualsiasi cosa venga venduta agli Stati Uniti dalla Russia». Una minaccia che non ha sorpreso il Cremlino. Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ha anzi ricordato: «Durante il suo primo mandato, Trump fu il presidente americano che più di ogni altro fece ricorso alle sanzioni nei nostri confronti. È un metodo che gli è sempre piaciuto». Il giornalista e propagandista russo Alexander Kots è andato oltre, definendo il tycoon come «un teppista politico di quartiere». Un bullo, in poche parole. Nonostante questo, anche da Mosca arriva una certa apertura al dialogo, sotto alcune prevedibili condizioni. Lo stesso Peskov oggi ha sottolineato: «Noi rimaniamo pronti al dialogo, ma che sia paritario e di reciproco rispetto». Putin non vuole essere messo alle corde dall’Occidente. Ma attende «segnali da Washington». E questo non vale solo sull’Ucraina, ma anche sul disarmo nucleare, già anticipato dallo stesso Trump, anche in occasione del World Economic Forum. Oggi Peskov ha detto che la Russia è pronta a discuterne «il prima possibile». Ha specificato: «Nell’interesse del mondo intero, nell’interesse dei popoli dei nostri Paesi, ovviamente siamo interessati ad avviare questo processo di negoziazione». E poi: «La palla è nel campo degli americani». Lo ha ripetuto anche Putin, direttamente, nel corso di un’intervista. Ha detto di essere pronto a trattative dirette con il suo omologo americano. Dichiarazione, questa, che ha suscitato l’indignazione di Kiev: «Vuole negoziare il destino dell’Europa senza l’Europa. E vuole parlare dell’Ucraina senza l’Ucraina», ha scritto su Telegram il capo dell’ufficio presidenziale Andriy Yermak.
Il complicato compito di Kellogg
A proposito di WEF, lì Trump - in collegamento - giovedì ha confermato: «L’Ucraina è pronta a un accordo». Lo aveva assicurato Zelensky pochi giorni prima, aggrappandosi proprio alla figura del nuovo presidente americano: «Se può garantire una sicurezza forte e irreversibile per l’Ucraina, ci muoveremo su questo percorso diplomatico». Ora bisogna capire, però, come arrivare a questo percorso, e poi - ovviamente - cosa mettere sul tavolo. Kiev continua a decantare la necessità di una «pace giusta», ma visto quanto sta esprimendo la guerra sul campo sarà difficile convincere Mosca a ritirarsi dai territori conquistati. Ed ecco allora che sembra farsi largo, in Ucraina, un’altra idea di ciò che è giusto o di ciò che non lo è. Il Washington Post citava una dichiarazione di Yermak, secondo il quale «una pace giusta è una pace che ha garanzie di sicurezza». Anche in questo caso, andrà discusso il modo di offrire le migliori garanzie di sicurezza a Kiev. Attraverso la NATO? Putin non lo accetterebbe, e ci sono resistenze anche interne alla stessa Alleanza. Con quei 200.000 soldati europei richiesti da Zelensky proprio a Davos martedì? Una strada che si presenta, in tutti i casi, in salita. «Non dimentichiamo che non c’è un oceano che separa i Paesi europei dalla Russia», ha detto lo stesso presidente ucraino, sollecitando l’Europa ad «affermarsi come un attore forte e globale, come un attore indispensabile». Con Francia e Germania concentrate sulle proprie vicende di politica interna, l’appello di Zelensky rischia di non trovare terreno fertile. Ma lo stesso vale per le richieste russe verso un’Ucraina demilitarizzata e privata di quei territori attualmente in mano a Putin. Oggi il vice ministro degli Esteri russo Serghei Ryabkov ha chiesto a Trump «maggiore realismo» in vista dell’eventuale processo negoziale. Stringi stringi, la pace immediata promessa da Trump nel corso della campagna elettorale non è ancora dietro l’angolo. Per ora bisogna accontentarsi di qualche pertugio. E di quella richiesta - riportata dal Wall Street Journal -, affidata dal neopresidente americano al tenente generale in pensione Keith Kellogg, suo inviato a Kiev: porre fine alla guerra in Ucraina in cento giorni. Il fatto che da Mosca non sembrino intenzionati a prendere sul serio Kellogg - «una reliquia della Guerra fredda», è stato ribattezzato dalla stampa - né la scadenza dei cento giorni, ancora non scalfisce il nuovo ottimismo di Zelensky.