La violenza sistemica dell'esercito russo
La guerra in Ucraina, forse, ha aperto gli occhi di molti. All’improvviso. Che l’esercito russo fosse (tristemente) famoso per i suoi metodi violenti, tuttavia, si sapeva. Da tempo. Bucha, insomma, è soltanto l’ultima tappa di un elenco lungo, molto lungo. Ne avevamo già parlato, ricordando la Cecenia e, ancora, la Siria.
Mosca, negli ultimi anni, ha insistito parecchio sulla professionalizzazione delle forze armate. Sbandierando la solita narrazione felice. La Russia, oggi, ha un sistema cosiddetto ibrido: da una parte soldati a contratto, dall’altra coscritti. L’idea, alla base, era e rimane quella di modernizzare un apparato uscito malconcio dall’epoca sovietica e legato a pratiche interne brutali. Il nonnismo, noto come Dedovshchina, è stato (e secondo alcuni è tuttora) il principale metodo, forse l’unico, per formare le nuove generazioni. Botte, violenze di vario genere, perfino stupri. Tutto per tramandare, eufemismo, l’arte militare ai più giovani.
Ma chi combatte in Ucraina?
Vladimir Putin, inizialmente, aveva affermato che i coscritti non avrebbero preso parte alla (citiamo) operazione militare speciale in Ucraina. In realtà, e lo ha confermato in seguito il ministero della Difesa, anche i soldati di leva sono stati spediti al fronte. Il presidente russo, in questi giorni, ha fissato un nuovo obiettivo: oltre 130 mila coscritti verranno chiamati nelle forze armate.
Mentre la comunità internazionale, di concerto con le autorità ucraine, sta cercando di far luce sulla barbarie di Bucha, il passato e la violenza, oseremmo dire sistemica, dell’esercito russo stanno emergendo con forza. Come un terribile rumore di sottofondo. Sempre più forte. Fino a disturbare.
Un'ombra lunga trent'anni
La violenza dell’esercito russo non è una novità. L’Armata Rossa, parliamo di Unione Sovietica, si macchiò delle peggio cose lungo il corso della storia. Venendo a Mosca, da almeno trent’anni un’ombra lunga avvolge le attività dei militari. Negli anni Novanta e nei primi anni Duemila emersero, appunto, pratiche allucinanti di nonnismo riassunte nel concetto di Dedovshchina.
Gli atti brutali, però, erano rivolti soprattutto verso l’esterno. Pensiamo alla prima e alla seconda guerra in Cecenia. Di più, l’esercito russo ha accumulato scene di devastazione e morte, senza soluzione di continuità. Ogni conflitto combattuto dalla Russia dalla dissoluzione dell’URSS ad oggi, infatti, si è sovrapposto nelle teste degli ufficiali e dei soldati. Diventando normalità, a maggior ragione se l’opinione pubblica – in termini di narrazione condivisa – ha criticato aspramente solo l’invasione dell’Afghanistan e il primo intervento in Cecenia.
La violenza, riassumendo, è diventata parte integrante della cultura militare russa. Un’abitudine. Estesa, quasi per osmosi, ad altre istituzioni. Citiamo le prigioni del Paese, la forza bruta della polizia e via discorrendo.
Ma il nonnismo non era finito?
Il nonnismo, riferiscono diversi media, recentemente sarebbe diminuito. Proprio perché Mosca ha tentato (e sta tentando) di modernizzare l’esercito. La violenza, anche quella istituzionalizzata, tuttavia non è sparita. Anzi. Sarebbe aumentata quella perpetrata dagli ufficiali sui soldati. Le parole chiave, in questo senso, sono disumanizzazione, umiliazione, isolamento anche.
E i mezzi a disposizione dei singoli soldati, per denunciare i superiori o semplicemente difendersi, sono pochi. Spesso sconosciuti o comunque poco pubblicizzati. L’esercito russo, in fondo, è lo specchio del Paese. I diritti fondamentali ci sono e sono garantiti, ma le violazioni – nella quotidianità – non sembrano smuovere troppe coscienze.
Le famiglie che cosa sanno?
Le famiglie dei soldati sanno e non sanno. Negli scorsi giorni, abbiamo scritto di alcune madri che piangevano i loro figli, usati «come carne da cannone» in questa guerra. Di azioni di protesta vere e proprie, congiunte, non si ha però notizia.
Nel 1995, le madri di allora partirono per il fronte nella speranza di recuperare i corpi dei loro ragazzi. Sentivano che quel conflitto era sbagliato e ingiusto, lo urlavano perfino. Oggi, la società russa è schiava della propaganda e di termini, fuorvianti, come denazificazione. Adoperati proprio per risvegliare il sentimento nazionalistico, facendo leva sul contributo che la Russia pagò in termini di vite per liberare l’Europa dal nazismo. A suo modo, una violenza pure questa.