Il reportage

La vita dei cristiani nel sud del Libano, tra Hezbollah e Israele

Al confine, la situazione è molto difficile: ogni giorno gli abitanti vedono i missili dei miliziani e quelli dell'esercito dello Stato ebraico passare sopra le loro teste – «Non vogliamo essere coinvolti in questo conflitto, vogliamo vivere in pace»
Padre Tony: «I contadini temono che non potranno più coltivare le proprie terre a causa del fosforo lanciato dagli israeliani». © Reuters/ALAA AL-MARJANI
Luca Steinmann
12.07.2024 06:00

Padre Tony osserva l’orizzonte. Dall’uscio di casa sua, guardando verso sud, si vede un’arida pianura al cui centro c’è Rmeich, suo villaggio nativo e ultimo centro abitato del Libano. Subito dopo, un chilometro più avanti, si alza una rigogliosa collina.

«Quella è Sasa, la prima altura israeliana. Da lì in poi è tutto Israele» dice. Dietro di essa, su tre colline ancora più alte, svettano le antenne di altrettante basi militari dell’esercito ebraico che da lì osserva ed ogni giorno bombarda i territori libanesi. Improvvisamente l’aria si riempie del ronzio di aerei a bassa quota. Sono dei caccia israeliani che sorvolano il territorio per individuare i nemici. Pochi minuti dopo nelle campagne intorno a Rmeich si alzano tre grosse nubi di intenso fumo nero. «Hanno colpito le posizioni degli Hezbollah» dice padre Tony. «Si posizionano intorno al nostro villaggio e da lì sparano verso Israele. Succede tutti i giorni. Per fortuna qui siamo al sicuro. Fino ad oggi gli israeliani non hanno mai bombardato le zone cristiane».

Un campo di battaglia

Rmeich è l’ultimo villaggio libanese prima di Israele e uno dei sei centri lungo il confine ad essere interamente abitato da cristiani. Gli altri villaggi di questa regione sono invece popolati da musulmani sciiti, la versione dell’Islam adottata anche da Hezbollah, il movimento politico e militare libanese legato all’Iran e nemico giurato dello Stato ebraico.

Fortemente radicato in questi territori, a partire dallo scorso sette ottobre – a seguito delle stragi intorno a Gaza per mano di Hamas – ha iniziato a bombardare i territori israeliani, venendo a sua volta bombardato. Da allora il sud del Libano è diventato un enorme campo di battaglia: da una parte Israele, dall’altra Hezbollah. In mezzo rimangono i villaggi cristiani che non prendono parte al conflitto ma continuano a vivere letteralmente tra due fuochi.

Il ritorno di padre Tony

Padre Tony è uno dei quattro preti di Rmeich. Poco più che quarantenne, dopo avere a lungo vissuto in Italia è tornato nel suo Paese nativo per stare vicino alla sua gente. «È qui il posto giusto per me. Qui proviamo a mandare avanti la vita delle nostre comunità in questi tempi così difficili». I villaggi cristiani lungo il confine sono gli unici in cui la vita vada avanti, seppur tra mille difficoltà. In quelli sciiti, invece, non si vede un’anima ma solo case abbandonate e palazzine ridotte in macerie. I miliziani di Hezbollah, infatti, sono abitanti di questi paesi che per questo Israele bombarda, generando la fuga di massa dei civili. «All’inizio della guerra abbiamo detto a Hezbollah di non entrare nei Paesi cristiani così da non renderci a nostra volta obiettivi dei bombardamenti» spiega padre Tony. Mentre parla riecheggiano delle esplosioni e altre nubi neri si alzano all’orizzonte.

Aride colline

Appena usciti da Rmeich si imbocca una strada che costeggia i territori israeliani e attraversa aride colline annerite, ricoperte di resti di alberi e cespugli bruciati. È la conseguenza degli incendi generati dai bombardamenti. «È un grosso problema – spiega padre Tony – i contadini non possono più coltivare le proprie terre e temono che non potranno più farlo nemmeno quando le bombe cesseranno a causa del fosforo lanciato dagli israeliani che potrebbe avvelenare il raccolto. Questo alimenta una grande crisi economica di questi territori che costringe molte persone che vorrebbero restare ad andarsene». Prima della guerra Rmeich aveva circa 115 mila  abitanti, oggi ne restano seimila.

Dal terrazzo del municipio

Procedendo lungo la strada si arriva ad Ain Ebel, altro villaggio cristiano dove oggi rimangono 1.200 persone. Anche qui subito dopo il 7 ottobre la municipalità ha chiesto a Hezbollah di non entrare. «Questa non è la nostra guerra, noi cristiani siamo delle vittime collaterali» dice il sindaco Imad Lallous. Il terrazzo del municipio dove lavora guarda direttamente le basi israeliani di Raheb e di Birantin, situate un paio di chilometri più avanti sulle cime di alte colline. «Per ora fortunatamente non siamo mai stati colpiti –  continua Lallous – e abbiamo organizzato un sistema di sicurezza notturno che si assicura che nessuna persona indesiderata entri nel villaggio...». Le sue parole vengono interrotte dal secco rumore delle esplosioni. Da tre punti diversi nelle campagne intorno al paese si alzano nel cielo decine di palle di fuoco dirette verso Israele. Sono razzi sparati da Hezbollah. «A breve Israele risponderà» dice Lallous con grande tranquillità mentre dal balcone assiste al bombardamento. «È così ogni giorno».

Mentre tutt’intorno i bombardamenti in entrata e in uscita non cessano a dentro Rmeich e Ain Ebel la vita prosegue. Gli abitanti rimasti si ritrovano nei bar, in chiesa, dal medico oppure nei negozi di alimentari. Tra loro ci sono opinioni politiche diverse. C’è chi attacca fortemente Hezbollah, accusandolo di avere importato in Libano la guerra di Gaza. Qualcuno invece lo giustifica. Quasi tutti dicono sono d’accordo su un punto: «Non vogliamo essere coinvolti in questa guerra, vogliamo solo vivere in pace».

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