Le profondità dell’universo presto avranno meno segreti
Kourou, Guyana francese. Davanti al centro spaziale europeo c’è l’oceano Atlantico, dietro l’immensa foresta Amazzonica. Acqua e terra. Sopra, l’infinità del cielo blu. L’aria. Sembra tutto calmo. Ci penserà il fuoco – il quarto elemento – a riempire di rumore e fumo la zona di lancio. Poi il momento più emozionante e carico di significato, il decollo. Ma questa volta sarà diverso, sarà ancora più importante. In cima all’Ariane 5, chiuso in un guscio, c’è un tesoro dal valore inestimabile: il telescopio spaziale James Webb (JWST).
Il meglio del meglio
Sono serviti 25 anni, molti errori e oltre 10 miliardi di dollari prima di arrivare al lancio verso lo spazio. In mezzo, un lavoro enorme per progettare, costruire, testare e assemblare questo strumento che rivoluzionerà la nostra percezione dell’universo. Perché ci permetterà di tornare indietro nel tempo, a circa 13,6 miliardi di anni fa. A quando il cosmo era appena nato, ai primi riverberi dell’inizio del tempo. Non vedremo il big bang, ma ci arriveremo vicinissimi. Più di quanto il predecessore del JWST – il telescopio spaziale Hubble – abbia mai fatto in 30 anni di rivoluzionaria attività.
Il dubbio del meteo
Ma non è una questione di capacità o di fortuna. È la tecnologia che permetterà al nuovo osservatorio – frutto di una collaborazione internazionale fra NASA, ESA , Agenzia spaziale canadese e altri 300 partner commerciali e accademici – di andare oltre la frontiera del visibile grazie a una strumentazione raffinatissima ed estremamente delicata. Di qui, anche, il doppio rinvio del lancio: ogni cosa in fase di settaggio deve funzionare perfettamente. Ora, però, ci siamo per davvero. Meteo permettendo, il 25 dicembre (alle 13.20 ora svizzera) il telescopio lascerà per sempre la Terra.
Le differenze
Marco Sirianni lavora a Baltimora, ed è il responsabile per ESA dello sviluppo delle operazioni scientifiche del JWST. «Sono ore di attesa ma tutto sta procedendo secondo i programmi», dice. «Lo scorso fine settimana è stato effettuato uno dei test finali, in cui sono state controllate tutte le funzioni base. Il telescopio è stato incapsulato in cima al razzo Ariane 5 e nelle ultime ore è stata effettuata la revisione totale di tutta la catena che porta al lancio vero e proprio». Il distacco del telescopio dall’ultimo stadio avverrà dopo meno di 30 minuti dopo il lift off. Ma a quel punto il viaggio sarà appena cominciato: a differenza di Hubble, situato in orbita bassa (a 570 km dalla Terra), il James Webb si spingerà lontanissimo, a 1,5 milioni di chilometri da noi. La zona esatta si chiama secondo punto di Lagrange, o L2. E prima di arrivarci, bisognerà attendere un mese. «Il JWST è stato mandato lontano dalla Terra per evitare ogni tipo di interferenza», spiega Sirianni. «Hubble è stato progettato per essere raggiungibile dagli astronauti, in modo da poter sostituire la strumentazione e allungare così la vita di servizio. Ma questo comporta degli svantaggi: Hubble attraversa infatti le fasce di Van Allen, colme di particelle cariche che disturbano le osservazioni. Inoltre, dal punto di vista termico, subisce gli effetti delle albe e dei tramonti, capaci di cambiare la temperatura dell’osservatorio».
Serve tanto, tantissimo freddo
Il JWST, invece, per funzionare ha bisogno di una temperatura bassissima (-230 gradi celsius) e, vista la distanza, sarà irraggiungibile dall’uomo. «Il punto L2 permette di puntare costantemente l’occhio verso lo spazio profondo e di avere alle spalle il Sole, la Terra e la Luna», aggiunge lo scienziato. Per contrastare il calore del sole, il nuovo strumento è dotato di uno scudo solare grande quanto un campo da tennis. «Permetterà di mantenere il telescopio e la strumentazione a temperature estremamente fredde». Altro aspetto non secondario: il punto L2 ruota attorno al Sole esattamente con la stessa tempistica della Terra, fornendo al telescopio un’orbita stabile.
L’album di famiglia
Prima di ricevere le prime immagini servirà tempo. Ma il significato di ciò che vedremo è già scritto. «È un po’ come trovare in casa un album di vecchie fotografie», semplifica Sirianni. «Secondo le conoscenze attuali, regalateci da Hubble, le prime foto ci ritraggono a quattro anni. Con l’attuale tecnologia siamo infatti riusciti ad arrivare a circa 600 milioni di anni dal Big Bang. Con il JWST riusciamo a guardare immagini di quando stavamo muovendo i primi passi, attorno all’anno di vita. Ovvero 100 milioni di anni dopo l’inizio dell’universo. Non siamo ancora in grado di osservare i primi giorni della nostra esistenza, ma siamo sempre più vicini». Il nuovo osservatorio rivelerà la formazione delle prime stelle e delle galassie primordiali. «In questo modo potremo ricostruire con un’accuratezza mai raggiunta prima la nostra storia: l’evoluzione della composizione chimica dell’universo, delle stelle e delle galassie. E come si sono generati i primi pianeti». Ma il JWST sarà capace di fare molto altro: studierà la formazione dei buchi neri, il ciclo di vita delle stelle dalla nascita alla morte, l’evoluzione dei sistemi planetari. E ci permetterà di conoscere meglio un settore astronomico in rapidissima crescita, gli esopianeti. Con il nuovo osservatorio si potrà studiare a fondo le atmosfere e i composti chimici dei pianeti al di fuori del nostro sistema solare, in modo da ricevere indicazioni accurate della presenza di vita.
La magia dell’incertezza
Gli obiettivi principali sono chiari, eppure la vera magia che avvolge queste missioni è l’incertezza. Le scoperte scientifiche inaspettate, com’è stato il caso con Hubble. «È proprio questo il bello dei telescopi spaziali», aggiunge Sirianni. «Scienziati da tutto il mondo sono in lista d’attesa per poter osservare l’universo attraverso il JWST. Impossibile quindi dire già oggi quali nuove conoscenze scopriremo. È affascinante, anche perché è la prima volta che viene utilizzato l’infrarosso con un tale livello di dettaglio. Sono certo che il JWST rivoluzionerà la scienza almeno quanto l’ha fatto Hubble negli ultimi 30 anni».