Il ricordo

L’eredità filosofica di Steve Jobs trascende il mercato e le sue regole

Dieci anni fa moriva il geniale fondatore di Apple: il suo credo - la ricerca della sintesi fra bellezza e funzionalità - è rimasto intatto
Steve Jobs è scomparso il 5 ottobre 2011 all’età di 56 anni
Stefano Olivari
05.10.2021 06:00

Cosa rimane di Steve Jobs a dieci anni dalla sua morte, avvenuta il 5 ottobre del 2011? Tantissimo, molto più dell’iPhone e di tutti gli altri suoi prodotti che hanno reso più accettabile il mondo. E la sua eredità è stata molto più importante fuori dal mondo Apple che dentro, visto che l’azienda da lui fondata nel 1976 e di fatto rifondata nel 1997 va meglio che ai suoi tempi.

Dieci anni dopo

Quando il 24 agosto del 2011 Jobs si dimise da amministratore delegato di Apple, sentendo che la sua lunga battaglia contro il tumore al pancreas era stata persa, nella lettera di commiato fu ottimista: «Per la Apple i giorni più luminosi e pieni di innovazione devono ancora arrivare». Sull’innovazione aveva torto, al di là dell’Apple Watch, degli Air Pods e di tanti miglioramenti a prodotti già esistenti, ma è vero che in generale il primo decennio senza di lui è stato straordinario. Fatturato e profitti si sono più che triplicati, mentre la capitalizzazione di Borsa è passata dai 350 miliardi di dollari del 2011 ai 2.360 di oggi, quasi sette volte tanto. Impossibile criticare Tim Cook, peraltro scelto e designato come successore proprio da Jobs, ma l’attuale CEO è il primo a sapere che gli manca un nuovo prodotto iconico, che cambi il mondo. Certo è che nell’ottobre del 2021 Apple sta fatturando circa 10.000 dollari al secondo, di cui 3.500 di profitto.

La semplicità scomparsa

La principale ossessione di Steve Jobs era la semplicità. Non soltanto quella d’uso dei prodotti Apple, ma anche dell’offerta: nella sua visione il cliente non deve essere bombardato da mille proposte, che trasmettono incertezza. Quando nel 1997 ci fu il suo grande ritorno, la prima cosa a cui mise mano fu la gamma dei Mac, annunciando che da quel momento Apple avrebbe venduto soltanto quattro prodotti: un desktop e un laptop consumer, un desktop e un laptop pro. È chiaro che oggi se fosse vivo penserebbe il peggio possibile del numero di iPhone che la Apple permette di comprare, coprendo un arco che va dai 400 dollari dell’iPhone SE ai 1.600 dell’iPhone 13 Pro Max, in totale 24 diverse configurazioni di iPhone. Un’idea di semplicità che si allarga anche all’uso: Apple si rivolge a chi si ritiene un creativo, anche se il 99,9% delle persone non lo è, non al nerd smanettone.

I prodotti

I numeri, dai due miliardi di iPhone venduti a tutti gli altri, possono dimostrare qualsiasi tesi: che Jobs è stato superato ma anche che ancora oggi senza il suo carisma i prodotti Apple non sarebbero gli stessi. Gli stessi «nuovi» prodotti di Cook, cioè l’Apple Watch e gli Air Pods, erano già stati immaginati da Jobs: se li avesse lanciati lui avrebbero cambiato il mondo come l’iPhone? Probabilmente no, perché la gente non li percepisce come iconici: l’enfasi sulla salute, chiave del successo dell’orologio, non è che sia emozionante, e gli auricolari pur belli e funzionali non cambiano la vita di nessuno. E soprattutto sono accessori dell’iPhone o dell’iPad, non oggetti con una loro identità indipendente. La genialità di Cook si vede dalla trasformazione di Apple da società che vende hardware a società che vende servizi, ma Jobs con iTunes aveva già previsto anche questo. Insomma, la fortuna del grande manager è quella di poter perfezionare le intuizioni del guru e la sua condanna è quella di non essere lui, il guru.

Lo spirito

Per Jobs il processo creativo era un valore in sé, la cosa che dava senso alla vita: cioè lavorare in un settore che piace, non necessariamente il tech, e provare a fare il massimo a prescindere dai soldi. La ricerca della sintesi fra bellezza (anche nelle scatole, anche se vengono buttate via subito dopo l’acquisto) e funzionalità era il credo di Jobs, convinto di avere raggiunto il massimo con l’iPad, il prodotto che aveva in testa fin dagli anni Settanta. E questo spirito rimane ancora oggi a fare la fortuna di Apple, anche se gli uomini di Jobs sono sempre di meno: la perdita più importante di tutte è stata quella di Jony Ive, capo del design di Apple dal 1997 al 2019 e principale interprete dei desideri a volte misteriosi di Jobs (leggendarie le loro riunioni in un corridoio segreto che univa i rispettivi uffici), che dopo due anni di vacanza ha iniziato a lavorare per la Ferrari. La Apple di oggi è una grandissima azienda, ma per certi versi simile a quella IBM che il giovane Jobs prima aveva ammirato e poi preso in giro, per il suo essere follower delle innovazioni degli altri, in particolare della prima Apple di Jobs e Steve Wozniak, il grande dimenticato in tante celebrazioni.

L’originalità

Steve Jobs era un imprenditore geniale ma non era un inventore e nemmeno un santo. Molte delle pratiche di cui accusava la concorrenza, su tutte il copiare o rielaborare, sono state alla base del successo di Apple. L’interfaccia grafica ed il mouse, per la storia mainstream creazioni Apple, erano stati ispirati dallo Xerox Alto, del resto sono i principi che Microsoft avrebbe poi ripreso da Apple. E la stessa interfaccia utente dei primi iPhone richiamava smartphone più antichi. Quello che Jobs vendeva non era l’intuizione tecnologica, ma uno stile. Unico, inimitabile perché semplice ed essenziale. La sua eredità vera è questa: tutti possono essere unici o credere di esserlo. Il «Siate affamati, siate folli» del famosissimo discorso di Stanford non morirà mai.

Quell'atto di umiltà che diede all'azienda una seconda vita

Nell’immaginario collettivo l’arcirivale di Steve Jobs è sempre stato Bill Gates. Il fondatore della cool Apple aveva buon gioco nel contrapporla alla grigia, anche se funzionale, Microsoft, per non parlare del confronto personale. Ma nessuna delle due aziende oggi esisterebbe se non ci fosse stata l’altra.

Coetanei, entrambi del 1955, avevano respirato la stessa America anche se il ceto sociale di Gates era più alto di quello della famiglia adottiva di Jobs. Va detto che Gates, che non guida Microsoft dal 2014, è sempre stato più sportivo: «Steve non sa nulla di tecnologia, ma è un genio del design e ha grande istinto per capire cosa funziona sul mercato». Jobs invece vedeva la Microsoft come un’azienda follower: «Bill non ha immaginazione e non ha mai creato nulla, per questo lo preferisco come filantropo». In realtà l’accusa del copiare può essere rivolta ad entrambi, non soltanto a Gates che a metà anni Ottanta presentò la sua prima versione del sistema operativo Windows per i prodotti IBM, ma che aveva messo a punto l’interfaccia grafica negli anni precedenti in cui Microsoft aveva lavorato per Apple.

Parole di fuoco e anni di gelo, prima della quasi incredibile riappacificazione del 1997. Diciamo «quasi» perché Gates è sempre stato affascinato dalla figura di Jobs, pur non valendo il contrario. Ma in quel periodo la Apple era sull’orlo del fallimento e Jobs, appena tornato amministratore delegato, chiese aiuto al vecchio rivale: l’accordo prevedeva lo sviluppo della suite Office (Word, Excel, Power Point) per i computer Apple, che da parte sua si impegnava a mettere Internet Explorer come browser di default. Gates non aveva necessità di quell’accordo, mentre per Jobs fu la base della rinascita: nessuna delle tante creazioni successive di Apple sarebbe stata possibile senza quell’atto di umiltà, l’unico nella sua vita, e senza il fascino esercitato anche su Gates. Non a caso Steve Ballmer, ex CEO di Microsoft ed attuale proprietario dei Los Angeles Clippers della NBA, disse che «Salvare Apple è stata la cosa più folle della storia di Microsoft».