Lo scenario

L'intelligenza artificiale che decide, un passo avanti che fa paura

Sono molte le grandi imprese, e non soltanto americane, attive nella costruzione di chatbot sempre più potenti e performanti – Su OpenAI la Microsoft ha investito 3 miliardi di dollari, ma il bilancio rimane in rosso
©Aleksei Gorodenkov / Alamy Stock Photo
Stefano Olivari
20.09.2024 06:00

«OpenAI o1» può essere una svolta epocale nel campo dell’intelligenza artificiale, il famoso cambio di paradigma, o un normale passo avanti che fa gridare al miracolo i fanboy, che nel mondo tech hanno comportamenti calcistici. A questo giro lo scenario più probabile sembra davvero il primo, con la concorrenza, Elon Musk in testa, pronta a reagire in questa guerra di tipo definitivo, che ha come obiettivo il superamento della mente umana, più che il suo controllo.

Mente logica

La scorsa settimana OpenAI, cioè l’azienda che quasi tutti identificano con ChatGPT, il suo prodotto di punta, ha annunciato un nuovo modello di intelligenza artificiale, chiamato «o1» (il nome interno in codice è Strawberry, fragola), che si differenzia da quelli precedenti perché ha più di un passaggio per arrivare a rispondere alle nostre domande. Non più risposte meccaniche, per quanto precise e veloci, ma ragionamenti da essere umano, usando quella che potremmo definire logica, scartando le risposte tecnicamente giuste ma in generale senza senso, per arrivare a ciò che davvero chiediamo.

Questo nuovo paradigma non è in contraddizione con quello della scala, cioè fare le stesse cose in maniera più veloce, che farà comunque parte della nuova versione di GPT, cioè GPT-5, ma con la scala si integra.

L’IA che fa paura

Nelle intenzioni, «OpenAI o1» dovrà quindi essere superveloce e onnisciente, ma anche capace di fare distinzioni di tipo qualitativo. E non soltanto in base ad algoritmi che si automodellano su richieste e ricerche precedenti. Finora, infatti, i modelli linguistici rispondevano grazie a reti neurali e a una sorta di allenamento. Adesso, con «o1» all’allenamento si sostituirà il cosiddetto «rinforzo», cioè la risoluzione di un problema con un’intelligenza artificiale che da sola dice a sé stessa cosa è giusto e cosa è sbagliato.

Approccio, quindi, complementare a quello vecchio, di tipo statistico-quantitativo. E utilizzo, almeno stando alle dimostrazioni su cui ha puntato Open AI, prevalentemente in ambito matematico o comunque scientifico, con sbocchi inquietanti nella programmazione: ecco l’intelligenza artificiale che fa paura, almeno a livello mediatico e pop. L’intelligenza artificiale che crea e, soprattutto, decide.

Musk contro Altman

Uscendo dai massimi sistemi filosofici e tecnologici, la vera domanda è chi controlla l’intelligenza artificiale nell’attesa di esserne controllato. Formalmente, OpenAI è di proprietà dell’omonima fondazione che si definisce non-profit e che si basa su donazioni. Tuttavia, l’azienda propriamente detta il profitto lo insegue, eccome. Diversamente, non avrebbe stretto nel 2019 un’alleanza con Microsoft, quattro anni dopo la sua nascita dovuta a sei imprenditori, fra cui Elon Musk e l’attuale CEO Sam Altman.

Il genio è Musk, ma le due personalità sono molto simili. Lo scontro è stato inevitabile, così come l’uscita, nel 2018, di Musk, il quale ha accusato soprattutto Altman di avere tradito lo spirito originario di OpenAI, cioè il bene dell’umanità e non il profitto. Una vicenda che ha fatto la gioia degli avvocati coinvolti e che si è trascinata fino a quest’anno. Inevitabile la lettura politica. Il cinquantatreenne Musk è un diretto sostenitore di Donald Trump, dal quale potrebbe persino ricevere un incarico governativo. Lo favorisce ed è anche un nemico della cultura woke, quindi della maggior parte degli imprenditori tech. Il trentanovenne Altman, quasi un archetipo della Silicon Valley (a partire dall’università, nel suo caso Stanford, abbandonata senza laurearsi) è stato un sostenitore e finanziatore di Joe Biden e medita una futura discesa in campo per la Casa Bianca: cosa che Musk non potrà mai fare, poiché non è nato sul territorio USA.

Concorrenza fortissima

Al di là della personalizzazione di tutto, per esigenze mediatiche, la partita dell’intelligenza artificiale non si sta giocando soltanto fra OpenAI e Musk con la sua «xAI», ma fra tante aziende controllate da pesi massimi: DeepMind, nel 2014 acquistata da Google; Meta AI, quindi Facebook e Instagram; Watsonx AI di IBM; i cinesi di Baidu. Da non dimenticare, fra i tanti che ci provano, la startup Anthropic con il suo Claude; i francesi di Maestrale; e i canadesi di Cohere, centrati sulla replica perfetta del linguaggio umano.

Tuttavia, non c’è dubbio che la sfida principale sia fra OpenAI e la xAI di Musk, fondata nel 2022 e che sta avendo con Grok anche uno sbocco su Twitter/X. In ogni caso, una competizione che non sta generando profitti e che non ha nemmeno un vero modello di business, se non il solito circo di raccolta di finanziamenti, ovviamente per chi ne ha bisogno (certo non Alphabet, Musk o Meta).

La realtà di OpenAI è che, nonostante i 13 miliardi di dollari pompati da Microsoft, essa ha bisogno di nuovi finanziatori, visto che la gestione corrente è in rosso di 3 miliardi annui. Molti addetti ai lavori prevedono l’entrata in società di Nvidia, che con i suoi chip è la principale beneficiata di questo boom dell’AI generativa. Al fanta-tech si scommette anche su Apple, rimasta fuori dalla partita e disposta forse a bere l’amaro calice dell’alleanza con Microsoft, peraltro non inedita nemmeno quando Steve Jobs era vivo.

Le ambizioni di xAI

La competizione ha anche una dimensione fisica che non è intuitiva ma che ha un impatto enorme, vista l’energia necessaria per far lavorare insieme migliaia di processori: Elon Musk sostiene che nel centro dati di xAI, a Memphis, ci siano 100 mila GPU (cioè processori grafici), che ne fanno il datacenter più grande del mondo. Di sicuro è stato costruito in stile Musk, in soli 4 mesi, senza nemmeno aspettare l’allacciamento alla rete elettrica né chiedere permessi: Musk ha fatto installare 20 turbine a gas e l’energia di xAI arriva da lì, da un generatore in grado di servire una città delle dimensioni di Lugano.

Il primo obiettivo è migliorare Grok 3 e farlo diventare, entro il prossimo Natale, il chatbot AI più potente al mondo. Un obiettivo velleitario? Chi ha trattato con sufficienza Musk quando parlava di pagamenti elettronici con PayPal, di auto elettrica con Tesla, di missioni spaziali private con Space X, se ne è poi pentito.

Oltretutto, l’intelligenza artificiale ispira qualsiasi tipo di sinergia all’interno di un potenziale «mega-gruppo industriale»: con le Tesla a guida autonoma, i robot umanoidi, i dati degli utenti di Twitter/X che Grok potrebbe essere in grado di raccogliere. E così via. Il punto d’arrivo, in un futuro indefinito, è che qualcuno scelga al posto nostro: nella storia, in fondo, è già successo tante volte. Anche se non con le macchine. 

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