L’ultimo A380, simbolo di un fiasco annunciato
È il più grande di tutti, forte di quattro motori e un doppio ponte. Nelle intenzioni del produttore, Airbus, avrebbe dovuto dominare i cieli. E invece, l’A380 ha imboccato il viale del tramonto. A metà dicembre, da Amburgo, è decollato l’ultimo esemplare prodotto. Destinazione Dubai, sponda Emirates.
Intendiamoci: la definitiva pensione è ancora lontana. I velivoli in servizio hanno dieci, forse quindici anni di servizio davanti. Miglia e miglia da percorrere, insomma, prima di venire dismessi. La sensazione, tuttavia, è proprio quella di un (quasi) addio.
Nessuna sorpresa, comunque: la produzione si era arenata nel 2019 per mancanza di ordini mentre lo scoppio della pandemia, nel 2020, aveva dato il colpo di grazia al progetto. Un progetto nato male e superato dagli eventi, o meglio da un mercato – quello dell’aviazione – sviluppatosi secondo altri schemi. Basti pensare che per coprire lunghe tratte, oggi, vengono utilizzati aerei più piccoli e, soprattutto, più efficienti sul fronte economico ed ecologico. Condannato dalle compagnie, amato dai viaggiatori, l’A380 a suo modo rimarrà nella storia. Per capirne di più ci siamo rivolti al professor David Gillen, direttore del Centre for Transportation Studies in seno all’UBC Sauder School of Business, prestigiosa facoltà dell’Università della British Columbia in Canada.
Professore, l’idea dell’A380 venne partorita negli anni Novanta. Airbus sapeva di essere in svantaggio rispetto a Boeing nei voli intercontinentali e perciò cercò un modo per ridare lustro all’industria europea. Il primo modello, però, entrò in servizio solo nel 2007. Si può dire, oggi, che l’aereo era condannato in partenza?
«Non la metterei proprio su questo piano. All’epoca l’A380 era un aereo completamente nuovo, con tecnologie in parte mai viste prima. Non solo, prima di entrare in servizio bisognava fare in modo che gli aeroporti fossero pronti ad accogliere un velivolo così grande. Data la natura del progetto, e considerando le circostanze, mi sarei aspettato che il mercato giocasse d’anticipo. Ovvero, che tenesse conto di possibili ritardi nelle consegne».
Cosa ha pesato di più, secondo lei? Il fatto che, al netto di alcune novità tecnologiche, l’aereo fosse ancora figlio degli anni Ottanta o che l’ideologia alle spalle del progetto fosse sbagliata? Airbus aveva in mente parole come hub e metropoli quando disegnò l’A380, mentre l’aviazione oggi segue anche altri modelli.
«È vero, l’A380 non è stato rivoluzionario. Non come il Boeing 787 con tutte le sue introduzioni tecniche. La vera novità, se vogliamo, era la dimensione stessa dell’aeroplano. Mentre il suo difetto maggiore era l’idea con cui venne concepito: si basava su una visione eurocentrica del mondo, secondo cui i grandi mercati sarebbero diventati ancora più grandi. Ma già all’epoca cifre e dati andavano in un’altra direzione. La crescita del Boeing 747, il cosiddetto jumbo, si era fermata poiché i singoli mercati non diventavano affatto più grandi. Semmai, si espandevano. Il 787, appunto, si basava su un altro assunto: ci sarebbero stati più mercati a disposizione e, quindi, maggiori frequenze. Prima che l’A380 venisse costruito questa tendenza era già in atto, bastava guardare i dati IATA».
Il progetto, costato molti soldi, è stato definito un fiasco commerciale. La questione climatica ha giocato un ruolo nel decretare, con largo anticipo, la fine della produzione dell’A380?
«In un certo senso sì, ma indirettamente e sul lungo periodo. L’A380 avrebbe avuto una chance commerciale se fosse uscito qualche anno più tardi. All’epoca, infatti, non aveva motori all’altezza: ma era il massimo che si poteva ottenere. Con motori migliori, beh, l’aereo avrebbe avuto una migliore performance e avrebbe fatto economia in termini di carburante, arrivando a ridurre le emissioni di CO2».
Mentre Airbus sviluppava l’A380, Boeing stava vendendo molto bene il 777 e lavorava al Dreamliner, il 787, un aereo che avrebbe segnato una svolta nel mondo dell’aviazione. Airbus, recentemente, si è difesa affermando che senza l’A380 oggi non ci sarebbe l’A350, un altro velivolo molto apprezzato dalle compagnie per i suoi consumi ridotti. Chi ha ragione fra i due colossi?
«L’A380 uscì portandosi appresso una promessa: quella di poter trasportare, volendo, fino a 800 persone. Nessuna compagnia, però, l’ha mai utilizzato con questa configurazione. Quasi tutti hanno scelto di trasportare 500 passeggeri. Al netto delle suite a bordo, è una configurazione non molto diversa rispetto al 777. Detto ciò, non penso che l’A380 fosse un precursore necessario per arrivare all’A350. L’unico aspetto che potrebbe accomunarli è quello delle catene di approvvigionamento. Il secondo progetto ha chiaramente beneficiato delle strade aperte dal primo, in questo senso. Ma oltre a ciò non vedo punti di contatto. Anche l’A350, come il Dreamliner del resto, ha subito ritardi nella produzione».
Se è vero che l’A380 non ha sfondato e che la pandemia ha dato il colpo di grazia, è altrettanto vero che Emirates, con 123 esemplari, è cresciuta grazie alle potenzialità di questo aereo. È un paradosso? Come mai le altre compagnie non sono riuscite a imitare la strategia del vettore emiratino?
«No, non è un paradosso. Nel 2005 affermai che l’A380 non avrebbe generato soldi per Airbus. Al contrario, avrebbe fatto le fortune di alcune compagnie. Il modello di Emirates prevede l’utilizzo di un singolo hub, come Turkish Airlines, per filtrare i passeggeri fra Nordamerica e Sudest asiatico. Come mi spiegò un dirigente di Emirates tempo fa: non per niente lo chiamano Medio Oriente. Poi, va da sé, il successo della compagnia è legato anche allo spostamento del centro di gravità economico dal Nordamerica e dall’Europa verso il Sudest asiatico. L’A380 è servito a Emirates per penetrare i vari mercati, trasformandosi presto in una minaccia credibile complice l’accresciuta capacità dell’aereo. Quando una compagnia vuole assicurarsi che le rivali non entrino in un determinato mercato, gioca proprio sulla capacità spingendola all’eccesso: ecco perché l’A380 è stato strategico per Emirates. Il vettore emiratino ha avuto successo puntando sul citato spostamento del centro di gravità economico, sulla crescita generale dell’aviazione ma anche sull’uso del diritto di traffico della quinta libertà, che ad esempio permette a Emirates di volare da Milano a New York. Infine, parliamo di una compagnia dal sostegno economico pressoché infinito. Se escludiamo Turkish Airlines, nessun altro vettore è stato capace di imitare Emirates. E questo perché non godeva degli stessi vantaggio economici e geografici».