«L'unica via di pace fra israeliani e palestinesi è un riconoscimento reciproco»
«L'emigrazione dei palestinesi dalla Striscia va incoraggiata: hanno perso il diritto di vivere a Gaza». È, questa, la tesi formulata in ottobre nella conferenza andata in scena a una manciata di chilometri dall'enclave. «Prepare to Settle Gaza», prepararsi a colonizzare Gaza, è il nome dato all'incontro – organizzato dal Likud, il partito del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, e dal movimento Nachala, noto per aver creato avamposti illegali in Cisgiordania – al quale hanno partecipato alti ministri del gabinetto israeliano, come il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir o il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Un evento ufficiale, insomma, che ha attirato le critiche di ong e movimenti internazionali e israeliani, come Standing Together o B'tselem, i quali hanno parlato di una retorica apertamente orientata alla «pulizia etnica». Critiche piovute, più recentemente, anche su una nuova uscita di Smotrich, il quale ha affermato che con il sostegno del neoeletto Donald Trump «è arrivato il momento di annettere la Cisgiordania».
La questione è, ovviamente, delicata. Se, da una parte, il diritto internazionale vieta simili iniziative – dall'insediamento in territori occupati allo spostamento (forzato o indotto) della popolazione residente – dall'altra l'argomentazione principale utilizzata da politici estremisti israeliani, quella della sicurezza, tocca preoccupazioni legittime: come garantire l'incolumità della popolazione israeliana, specialmente dopo quanto avvenuto il 7 ottobre 2023? Ne abbiamo parlato con il professor Matteo Gianni, direttore del dipartimento di Scienze politiche e relazioni internazionali all'Università di Ginevra, esperto di teoria politica normativa del multiculturalismo e di politica di integrazione.
«Un'idea improponibile»
Il caso, evidenzia Gianni, è unico. «Non esiste un altro governo democratico che possa parlare così esplicitamente di colonizzazione», un modello di espansione oggi «criticato e non ritenuto una legittima azione politica». Soltanto un paio di mesi fa, del resto, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, la Corte internazionale di giustizia, «ha espresso questa posizione: il controllo permanente sui territori palestinesi, a livello militare, o di infrastrutture, nuoce all'autodeterminazione del popolo palestinese, e quindi va contro i principi del diritto internazionale». Gianni aggiunge: «Dove andrebbero, poi, i palestinesi? L'Egitto e le altre nazioni vicine non sembrano interessate ad accoglierli. Non ci sono sbocchi evidenti per i due milioni di persone che vivono a Gaza. Al di là della contrarietà al diritto internazionale e ai principi di giustizia più elementari, anche da un punto di vista pratico un simile progetto pare completamente irrealizzabile. L'ipotesi di colonizzazione non contribuisce sicuramente allo sviluppo di dinamiche che possano portare a una soluzione pacifica del conflitto, questo è evidente, e anzi creerebbe un problema di sicurezza ancora maggiore per i prossimi cent'anni. Insomma, siamo di fronte a una proposta politicamente improponibile».
Disparità
Mentre le bombe continuano a cadere su Gaza e sul Libano e soldati israeliani vengono uccisi negli scontri con le milizie di Hamas e Hezbollah, parlare di ciò che verrà dopo, di che cosa vivranno le popolazioni catturate dalla guerra, pare un passo troppo lungo. Eppure, lo dimostra la già citata conferenza coloniale, il dibattito è già aperto. Come risolvere, allora, il problema della convivenza garantendo, da una parte, diritto all'autodeterminazione e, dall'altra, sicurezza? Gianni ci offre una visione basata sul multiculturalismo. «Nella gestione politica di società dove esistono culture molto differenziate – possiamo citare i classici esempi di Paesi sottoposti a grande immigrazione, come Canada, Stati Uniti o Australia – l'ambizione del multiculturalismo è quella di realizzare migliori forme di giustizia che proteggano giuridicamente anche le minoranze, e le loro culture, perché considerate importanti per lo sviluppo personale, morale, dei cittadini». Perché il multiculturalismo abbia anche solo una possibilità di funzionare, però, «deve essere preceduto da un minimo di criteri di giustizia e di democrazia politica. Concetti come uguaglianza, rispetto dei diritti individuali e dei diritti politici di base».
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Il discorso vale nei rapporti verso l'esterno – fra Israele e i territori palestinesi occupati – ma anche per quelli interni al Paese. Quelli, per intenderci, fra cittadini israeliani arabi ed ebrei. Il caso di Israele, sottolinea Gianni, è complesso e interessante: «Si tratta di un Paese estremamente multiculturale per quanto riguarda la società – composta da ebrei di varie provenienze, da arabi e da cristiani – ma per nulla multiculturale da un punto di vista politico. Per fondate ragioni storiche, Israele ha come missione ultima la difesa della comunità ebraica. Ma l'identità dello Stato israeliano, per definizione ebraico, crea evidentemente delle disuguaglianze nei confronti degli altri gruppi culturali, ai quali vengono concessi, sì, alcuni diritti (lo Stato israeliano, ad esempio, sovvenziona i luoghi di culto di altre religioni), senza che sia raggiunta la piena parità». Tutto ciò, continua Gianni, «è contrario all'ottica liberale e democratica del multiculturalismo, secondo la quale lo Stato deve essere il più neutro possibile nei confronti dei vari gruppi, affinché non porti a discriminazioni delle minoranze». Insomma, per l'Israele di oggi «parlare di multiculturalismo sarebbe confondere una diagnosi sociologica della società israeliana – chiaramente multiculturale – con la proiezione di un sistema politico che dovrebbe garantire i diritti di tutte le minoranze quando in realtà è ben lontano dal farlo». Un esempio? «Israele, già prima della guerra, era studiato da chi si occupa di scienze politiche come un caso dove i diritti di cittadinanza non sono egualmente distribuiti». Formalmente uguali ai cittadini ebrei, in realtà i cittadini arabi di Israele subiscono diverse discriminazioni, come riconosciuto, a inizio Duemila, da un giudice della Corte suprema israeliana nell'ambito di un'indagine relativa alla Seconda intifada (commissione Or). «Gli israelo-palestinesi, il 18% circa della popolazione, non hanno accesso ad alcune prestazioni e diritti a causa di un regime di cittadinanza che dà delle prerogative alla maggioranza e ne toglie alle minoranze. In termini di uguaglianza, libertà civili, accesso al potere politico, è chiaro esistano disparità strutturali alla base del modello di cittadinanza israeliana». Date le premesse, evidenzia l'esperto di teorie della democrazia, «costruire una coesistenza pacifica, multiculturale, è difficile».
Il riconoscimento
Gianni non si fa illusioni: «La cristallizzazione delle tensioni sociali, delle relazioni estremamente problematiche fra i vari gruppi, rende complicata la creazione di una narrativa alternativa per l'identità politica dello Stato d'Israele. Ma è chiaro che affinché da un punto di vista sociale certi movimenti siano possibili, be', occorrono azioni politiche come il riconoscimento di diritti, di libertà civili e dei presupposti del diritto internazionale». Tradotto: prima di un cambiamento sociale, ne serve uno politico. «Torniamo all'esempio della colonizzazione. Malgrado l'illegalità stabilita dal diritto internazionale, il fenomeno in Cisgiordania è in costante aumento. Oggi, circa il 40% di questi territori è in mano ai coloni israeliani. Il governo attuale – come praticamente tutti quelli che l'hanno preceduto – non ha fatto un granché per arginare il moltiplicarsi di insediamenti. Un processo di questa natura, se non sanzionato politicamente, non aiuta certo a creare basi affinché i palestinesi abbiano l'impressione di essere trattati in modo sufficientemente egualitario per poter partecipare, da pari, al gioco democratico. Un segnale politico forte da parte del governo israeliano su fenomeni come quello della colonizzazione rappresenta quindi una precondizione per una pace che sia stabile».
Studioso anche della teoria del riconoscimento, Gianni ci spiega che è proprio questo concetto, il riconoscimento, a essere centrale nella questione israelopalestinese e ancor più nella gestione dei rapporti tra ebrei e cittadini arabi di Israele. «Affinché le istituzioni democratiche funzionino in maniera legittima, tutti devono essere riconosciuti come soggetti morali e politici che devono avere accesso egualitario a ciò che definisce nazione, diritti, leggi. L'altro, la sua esistenza e i suoi diritti vanno riconosciuti: un processo, ovviamente, da applicare in entrambi i sensi. È su questo riconoscimento reciproco che è possibile, poi, sviluppare relazioni e rapporti di fiducia minimi, oltre a una capacità nella ricerca di soluzioni condivise. Quando questo riconoscimento non esiste, o è inficiato da strategie di disumanizzazione, di negazione del valore morale e politico dell'altro, ciò si traduce in conflitti, nell'incapacità di poter pensare e di poter agire in funzioni di soluzioni comuni».
È solo attraverso il riconoscimento, sottolinea l'esperto, che le narrazioni delle due popolazioni – finora obbligate a muoversi su binari paralleli – potranno mai incontrarsi. «È dal 1948 che per i due gruppi esiste una Storia diversa, una socializzazione diversa, un senso delle ingiustizie differenti. In queste condizioni l'altro diventa, per definizione, un nemico: un punto di vista sensato per chi vuole emergere con la forza, non per chi vuole democrazia e giustizia».