Ma chi è Joe Biden? Ce lo racconta Barack Obama

«Un altro tema di politica estera emerse quando, durante un discorso, dissi che se avessi avuto Osama bin Laden nel mirino in territorio pakistano, e il governo di Islamabad si fosse mostrato riluttante o impossibilitato a catturarlo o a eliminarlo, avrei premuto il grilletto. [...] La mia dichiarazione gettò Washington in una sorta di agitazione bipartisan, con Joe Biden, presidente della Commissione per le relazioni estere del Senato, e il candidato repubblicano alla presidenza John McCain entrambi concordi nel ribattere che non ero pronto per fare il presidente».
Inizia così, con uno scontro diretto e un giudizio a dir poco malevolo e un po’ tranchant, il rapporto tra Barack Obama e Joe Biden. Ed è stato proprio Obama a ricordarlo nel primo volume della sua biografia (Una terra promessa, Garzanti, 2020), dalla quale non sono stati eliminati i passaggi più spinosi né le difficoltà incontrate durante la fase di costruzione di un rapporto umano e politico destinato, negli anni, a cementarsi e a diventare solidissimo.
Un po’ saggio e un po’ racconto di vita
La biografia di Obama è indubbiamente bella. Scritta bene e ricchissima di storie. A metà tra il saggio di storia e il racconto di vita.
Il momento in cui il giovane senatore dell’Illinois, dopo aver dominato in modo del tutto inatteso le primarie democratiche deve scegliere il suo vice, è uno dei passaggi chiave di tutto il libro.
«C’era da prendere la decisione più importante - scrive Obama -. A chi affidare il ruolo di vicepresidente? Avevo ristretto la scelta a due sole opzioni: il governatore della Virginia Tim Kaine e il senatore del Delaware Joe Biden. All’epoca ero molto più vicino a Tim». Con Joe invece, racconta Obama, «non potevamo essere più diversi l’uno dall’altro, almeno sulla carta. Aveva diciannove anni più di me, e se io a Washington ero un autentico outsider, lui aveva già trascorso trentacinque anni tra i banchi del Senato [...]. Se la mia formazione giovanile era stata itinerante, lui aveva salde radici nella comunità di Scranton, in Pennsylvania, ed era orgoglioso delle origini operaie irlandesi (fu solo in seguito, una volta eletti, che scoprimmo che i nostri rispettivi antenati irlandesi, entrambi calzolai, erano partiti per l’America a distanza di sole cinque settimane l’uno dall’altro). E se io davo l’impressione di avere un temperamento freddo e controllato, anche per il modo in cui misuravo le parole, Joe era tutto calore umano, un uomo senza inibizioni, sempre felice di esprimere qualsiasi cosa gli passasse per la testa. [...] Se la durata prevista di un discorso era di quindici minuti, Joe andava avanti per almeno il doppio. Se la durata prevista era di mezz’ora, allora non c’era modo di sapere per quanto avrebbe parlato. I suoi monologhi durante le audizioni in commissione erano leggendari. L’assoluta mancanza di filtri lo cacciava regolarmente in qualche guaio, come quella volta in cui, nel corso delle primarie, mi aveva definito «un ragazzo di bell’aspetto, pulito e con un eloquio brillante», frase che senza dubbio voleva essere un complimento, ma che qualcuno aveva interpretato come una velata insinuazione del fatto che simili caratteristiche fossero particolarmente degne di nota in un nero» (certo, niente a che vedere con il «bello, giovane e abbronzato» di Silvio Berlusconi).
Un ruolo mal tollerato
Quando Barack Obama chiede a Biden «di sottoporsi al processo di valutazione iniziale» e gli propone un incontro durante un tour elettorale in Minnesota, il futuro vicepresidente fa «resistenza: come la maggior parte dei senatori, Joe aveva un ego smisurato e mal tollerava l’idea di un ruolo di secondo piano. Quando ci vedemmo esordì illustrandomi tutti i motivi per cui un incarico di vicepresidente poteva rappresentare un passo indietro per lui (insieme alla spiegazione del motivo per cui, in ogni caso, non avrei potuto compiere scelta migliore). Io gli assicurai che non stavo cercando una controfigura da cerimonia ma un vero partner. “Se scegli me”, disse Joe, “voglio poter essere messo nelle condizioni di fornirti consigli e valutazioni con la massima franchezza. Tu sarai il presidente e io ti difenderò comunque, qualunque cosa tu decida. Ma voglio che il mio sia l’ultimo parere che chiedi prima di ogni decisione importante”. Gli risposi che era un impegno che potevo assumere».
Lo staff della campagna elettorale tifava apertamente per Kaine, ma le cose andarono diversamente perché Barack Obama fece prevalere il suo «istinto»: Joe, scrive, «era una persona perbene, onesta e leale. Ero convinto che avesse a cuore la gente comune, e che nei momenti di difficoltà avrei potuto contare su di lui».
La notte della vittoria, il 4 novembre 2008, nella stanza dell’hotel di Chicago dove aveva atteso i risultati, il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti «riceve la telefonata di John McCain, cortese ed elegante come il discorso con cui riconosceva la sconfitta», poi «la chiamata di congratulazioni» di George Bush «e quelle di molti leader stranieri». E subito dopo incontra la madre novantunenne di Biden: «si concesse lo sfizio di raccontarmi come avesse strigliato il figlio per aver anche solo pensato di non fare parte del ticket», racconta divertito Obama. Alla fine, la scelta era stata quella giusta.