Majdan, l'atto di nascita dell’Ucraina moderna
Concludiamo quest’anno di approfondimenti dedicati all’Ucraina tornando all’atto di nascita dell’Ucraina moderna: le «rivoluzioni del Majdan». Sui movimenti di popolo si addensano sempre sospetti e teorie del complotto. Ancora oggi, dal 1989, intorno ai moti che in Romania causarono la caduta del regime di Nicolae Ceaușescu si continua a speculare sul coinvolgimento di mille burattinai. A Timișoara, un giorno, chiesi lumi su possibili ingerenze esterne all’allora direttore del Memoriale della Rivoluzione romena, Traian Orban. Simpatico, minuto, camminava con il bastone: durante gli scontri dell’89 era stato ferito a una gamba da un colpo d’arma da fuoco. Invece di rispondermi, si alzò, mi prese letteralmente sotto braccio e mi portò in centro città. Mi mostrò ogni singolo edificio in cui si vedevano ancora le tracce dei proiettili sparati dai militi e dai blindati del regime per reprimere la rivolta. Alla fine mi disse: «Guardi me, il mio bastone, guardi questi muri sbrecciati, questi portoni bucati: Le sembra che si possa fare tutto questo per obbedire a qualche politico o a una potenza straniera?».
Capii più di rivoluzioni in mezza giornata, accompagnando nel suo lento claudicare quel mite ex veterinario, che ormai viveva raccogliendo documenti sulla «sua» rivoluzione, di quanto si possa imparare da mille libri di storia. C’è sempre chi si appropria delle rivoluzioni, prima, durante e dopo, chi vuole guidarle dove gli farebbe comodo, ma non è questo il punto. Se non è esasperato, un padre di famiglia non rischia la vita in strada, facendo barriera ai mitra dello Stato, perché glielo ordina qualcuno. Le tecniche per scatenare moti popolari artificiali possono causare qualche corteo, qualche vetrina rotta, ma non riempiono le piazze per settimane a venti gradi sotto zero. Il senso delle grandi rivoluzioni, dalla Rivoluzione francese in giù, non è nella dietrologia: è nelle motivazioni di chi, facendole, mette in gioco la propria vita per ottenerne una più degna.
Perché gli ucraini scendono in piazza
Per capire perché gli ucraini scendono due volte in piazza a distanza di 10 anni, prima nel 2004 con la «Rivoluzione arancione» e poi nel 2013/14 con la rivolta di Piazza Indipendenza – Majdan Nezaležnosti, in breve Majdan, come ormai la si chiama ovunque – bisogna conoscere le condizioni di vita in quegli anni nei Paesi dell’Est Europa. Corruzione e criminalità dominano ogni aspetto della vita quotidiana. Non si ottiene la visita medica senza bustarella, senza mancia al funzionario non si riceve un servizio pubblico che spetterebbe di diritto. Chi lavora in proprio agisce su un mercato accaparrato da oligarchi prepotenti e sa che la criminalità lo prenderà di mira, appena comincerà a guadagnare qualcosa. I tribunali non funzionano, persino il diritto di famiglia è ancora di stampo sovietico, lascia i figli a mogli abbandonate senza garanzie. Quello è il mondo da cui tanti, ma soprattutto tante ucraine, romene, russe, moldave, polacche fuggono in Occidente dai primi anni Novanta. È facile dire: «Ecco, quando c’era il comunismo criminalità e corruzione non esistevano!» Nel libro-inchiesta collettivo «Kryša» (in italiano diremmo «La cupola») i giornalisti del sito Fontanka.ru hanno ricostruito le radici dei raket che hanno strangolato l’Europa dell’Est. Una cultura criminale che già in Unione sovietica controllava il mercato nero, menava le mani nelle periferie con la giustizia fai-da-te, permetteva di ottenere, in cambio di denaro, qualche piccolo privilegio negato dallo Stato. Nel disastro sociale ed economico seguito alla fine dei regimi comunisti, quel sottobosco banditesco si impasta con lo strapotere degli oligarchi e si impadronisce della vita di tutti, volenti e nolenti, per decenni.
Le «rivoluzioni della dignità»
Ecco perché le rivoluzioni ucraine degli anni Duemila sono chiamate «rivoluzioni della dignità». La spiegazione più corrente è che il Majdan sia nato dalla protesta degli ucraini contro il presidente filorusso Viktor Janukovyč, che nel 2013 rifiuta di firmare l’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione europea e riavvicina il Paese alla Russia. E’ vero, è andata così, ma il retroterra di questo passaggio è nel mondo precedente la caduta del Muro di Berlino.
Nel 2013 il torinese Mauro Voerzio è un piccolo imprenditore a Kyiv. Segue la moglie ucraina e il suo sogno d’impresa. Apre un’agenzia viaggi a pochi passi dalla piazza che diventerà il perno della rivoluzione. Partecipa alla protesta come attivista ed è la sola persona di lingua italiana, per quanto si sa, ad aver preso parte al Majdan da capo a fondo. Il suo libro «Gli angeli di Majdan» (2014) ne è una testimonianza toccante, l’unica scritta in originale nella nostra lingua da chi ha vissuto la rivoluzione ucraina dall’interno. Il libro di Voerzio e le memorie di Andrej Kurkov, tradotte in italiano come «Diari ucraini» (Keller, 2014), sono letture imprescindibili, per vedere tutti quegli aspetti del Majdan che la propaganda filorussa ha appannato, sui media occidentali, accusando i manifestanti di golpismo, neonazismo e oscure complicità.
L’Ucraina a dicembre 2013
Quale fosse la situazione a Kyiv, nel dicembre 2013, lo spiega Voerzio con rara efficacia: «La mia società, dopo tanti anni di sacrifici, aveva preso a girare a pieno regime […] Nonostante questo, la decisione [di andare a manifestare] è maturata nel giro di pochi minuti. [Io e i miei collaboratori] eravamo tutti d’accordo che non avrebbe avuto senso lavorare in futuro in un sistema basato sulla corruzione e sull’intimidazione mafiosa […] Quando la gente sul Majdan scandiva ‘L’Ucraina è Europa’, non aveva in mente i burocrati e le lobby finanziario-bancarie di Bruxelles, bensì una dimensione geografica, storica e culturale a cui il Paese è appartenuto […], caratterizzata da una lunga tradizione democratica, dalla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, da una società civile in grado di organizzarsi e far sentire la propria opinione […] Quelle proteste segnavano un tentativo […] di evitare di essere nuovamente risucchiati nell’orbita russa, di essere nuovamente sequestrati dal resto del mondo dietro una rinnovata cortina di ferro».
«Dignità» significa, per gli ucraini del Majdan – e per gli altri cittadini dell’Est Europa accomunati dalla stessa storia – vivere in un Paese nel quale si ottenga ciò che è dovuto senza far passare mazzette sotto i tavoli; nel quale le elezioni non siano truccate per far salire al potere ogni volta la cricca di gerarchi filorussi, accompagnati dal loro corteo di oligarchi e funzionari corrotti; avere tribunali indipendenti che applicano leggi eque. Questo è il sogno che sembra spezzarsi, quando Janukovyč rifiuta di firmare l’associazione con l’Unione europea e tenta di riallacciare l’Ucraina alla Russia. Tra fine novembre e dicembre 2013, sull’enorme Majdan Nezaležnosti cominciano a formarsi presidi. «Le poche tende diventano un accampamento, da tutta la Nazione arrivano [dimostranti] con le loro insegne, le cucine da campo si moltiplicano, nascono addirittura tende-chiesa. [Il Majdan] diventa una città nella città, con la sua milizia [il servizio d’ordine autogestito], i suoi ospedali, il centro stampa, le TV via stream, i responsabili, i suoi eroi, le sue barricate», ricorda Voerzio.
Majdan: dalla protesta pacifica agli scontri
Tra dicembre 2013 e gennaio 2014 il Majdan è un chiassosa protesta fatta di comizi, concerti, letture pubbliche, contro il presidente Janukovyč e le sue improvvide decisioni. Qualche scontro si produce quando la polizia tenta di disperdere i manifestanti. Ci sono ucraini di ogni provenienza, estrazione sociale, credo politico e religioso. Dal 19 febbraio, però, la situazione precipita. I reparti antisommossa Berkut, la polizia e i militi dei servizi segreti intervengono in armi. I dimostranti si difendono lanciando pietre e molotov, fanno muro e cadono a centinaia. I feriti vengono curati in sale operatorie improvvisate, andare in ospedale significherebbe l’arresto; i morti si accumulano nella hall del vicino Hotel Ucraina. La sera del 21 febbraio Janukovyč fugge in Russia, lasciando l’Ucraina senza presidente. Putin, che lo sostiene, urla che è vittima di un golpe, ma la realtà è che Janukovyč fugge perché non controlla più l’Ucraina. Il Majdan finisce così, ma la storia continua. Un mese dopo la Russia annette la Crimea, mentre i «separatisti» alimentati da Mosca spadroneggiano nel Donbas.
L’eredità del Majdan
Passo da Kyiv pochi mesi dopo, diretto a Kharkiv. Dormo all’Hotel Ucraina, dalla finestra della camera la vista abbraccia tutto il Majdan. La piazza è stata ripulita, ma gli edifici portano ancora i segni della battaglia. Uscendo dalla metropolitana, in cima alla via Institutskaja, passo davanti al memoriale improvvisato per i caduti del Majdan, una pila di candele, fiori e fotografie. Sull’altro lato della strada, sul muretto che delimita l’aiuola, la lunga serie di foto di chi ha perso la vita per l’ideale della rivoluzione. Nel dicembre 2023, dieci anni esatti dopo l’inizio del Majdan, l’Unione europea approva l’inizio delle consultazioni per l’adesione dell’Ucraina. I ragazzi ripresi in quelle meste fotografie hanno vinto, ma non lo sapranno mai.
Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per la seconda clicca qui. Per la terza clicca qui. Per la quarta clicca qui. Per la quinta clicca qui. Per la sesta clicca qui. Per la settima clicca qui. Per l'ottava clicca qui. Per la nona clicca qui. Per la decima clicca qui. Per l'undicesima clicca qui.