Mark Zuckerberg e gli altri: tutti i perché dei salamelecchi Tech a Donald Trump
In fila. Uno dopo l’altro. Come, d’altro canto, avevano fatto immediatamente dopo la (schiacciante) vittoria elettorale di novembre, quando via social avevamo assistito a una sfilza di complimenti e messaggi distensivi. I grandi nomi dei colossi Tech, negli Stati Uniti, si sono allineati al presidente eletto Donald Trump e, parallelamente, al suo principale collaboratore politico, Elon Musk. A pochi giorni dall’investitura del tycoon, il fondatore di Meta Mark Zuckerberg ha annunciato una svolta, per certi versi epocale, nel nome – parole sue – della libertà di espressione. Riassumendo al massimo, Meta ha deciso di separarsi dal cosiddetto fact-checking esterno. Largo a un controllo della veridicità dei contenuti à la Musk, ovvero sfruttando le note degli stessi utenti. Non finisce qui: secondo quanto comunicato ieri, Instagram, Facebook e Threads «si sbarazzeranno» di limitazioni su argomenti come «immigrazione, identità e questioni di genere». E ancora: «Non è giusto che le cose possano essere dette in televisione o in Parlamento, ma non sulle nostre piattaforme» si legge in un articolo sul blog di Meta a firma del capo degli affari internazionali, Joel Kaplan. Una figura molto vicina al Partito Repubblicano.
Le mosse di «Zuck»
La svolta, evidentemente, è stata salutata con entusiasmo dallo stesso Trump e da Musk. Zuckerberg, in piena sintonia oramai con l’amministrazione che verrà, ha spiegato che i fact-checker sin qui utilizzati da Meta sono stati accusati di tendere pericolosamente a sinistra e, per questo, di aver distrutto più fiducia di quanta ne abbiano instaurata. Lo spostamento è (anche) fisico: le squadre di moderazione verranno spostate dalla California, uno degli ultimi bastioni del progressismo Democratico, al Texas, uno Stato profondamente Repubblicano e di riflesso parecchio conservatore. Una mossa, questa, che richiama alla memoria la scelta effettuata a suo tempo da Elon Musk, in piena pandemia, per Tesla.
L’impressione, al di là degli accostamenti, è che Zuckerberg – come Musk – voglia altresì buttarla in caciara sul fronte politico. E che, appunto, stia cercando di ingraziarsi il Partito Repubblicano. Un primo indizio: l’ingresso nel Consiglio di amministrazione di Meta di Dana White, presente al mega-comizio elettorale di Donald Trump al Madison Square Garden a New York. Un secondo: al pari di Elon Musk, piuttosto attivo nelle vicende politiche della Germania e del Regno Unito, Zuckerberg si è scagliato contro l’Unione Europea. Colpevole, a suo giudizio, di aver adottato un numero «crescente» di leggi votate alla censura e, ancora, di complicare e non poco la vita a chiunque cerchi di innovare. Un terzo: Zuckerberg, sulla scia di quanto accaduto con X in Brasile, ha denunciato i «tribunali segreti» del Sudamerica. Il tutto, in queste ore, è stato riassunto da una dichiarazione programmatica. A firma Zuckerberg, già: «Lavoreremo con il presidente Trump per fare pressione sui governi di tutto il mondo che attaccano le aziende statunitensi e spingono per una maggiore censura».
Il distacco dall'amministrazione Biden
La svolta, a suo modo, è tanto evidente quanto spettacolare. Quattro anni fa, dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, Donald Trump era stato bandito da Facebook. Il tycoon, per anni, ha giurato vendetta. Lo scorso agosto, quindi nemmeno troppo tempo fa, ha detto: «Zuckerberg passerà il resto della sua vita in prigione se proverà a immischiarsi nelle elezioni di novembre».
La svolta, proprio a fine agosto, è stata anticipata dalla rottura fra lo stesso Zuckerberg e l’amministrazione Biden. In una lettera inviata al Congresso, il patron di Meta ha infatti riconosciuto di aver subito (e accettato) pressioni da parte dell’FBI, nel 2020, volte a «ridimensionare» e, di fatto, «retrocedere» un’inchiesta del New York Post sul portatile di Hunter Biden, il figlio dell’allora presidente. Una decisione, ha ammesso Zuckerberg nella lettera, rivelatasi errata poiché, in realtà, non c’era nessun complotto internazionale né tantomeno russo alle spalle, come sostenuto dagli inquirenti. «Credo che le pressioni del governo fossero sbagliate e mi rammarico che non siamo stati più espliciti al riguardo» le parole del patron di Meta. «Penso anche che abbiamo fatto delle scelte che, con il senno di poi e con le nuove informazioni, oggi non faremmo». L’amministrazione Biden, fra le altre cose, aveva chiesto espressamente che alcuni contenuti riguardanti la pandemia da COVID-19 venissero censurati. Una pressione, anche qui, giudicata «esagerata» da Zuckerberg con il senno di poi.
Il vento cambia, anche per Bezos
La vittoria di Donald Trump, a novembre, ha accelerato il processo di avvicinamento e allineamento di Zuckerberg al mondo conservatore. Durante una visita a Mar-a-Lago, il quartier generale del tycoon in Florida, Zuckerberg ha donato al presidente eletto un paio di occhiali «intelligenti» prodotti da Ray-Ban in collaborazione con Meta. Ha pure annunciato un altro regalo: un milione di dollari per finanziare l’inaugurazione di Trump, in programma fra pochi giorni.
Come Zuckerberg, dicevamo, più o meno tutti gli alti papaveri del mondo Tech statunitense hanno seguito lo stesso, identico cammino di – chiamiamola così – redenzione. Come se Trump, parafrasando una famosa serie italiana, avesse detto: «Vien, viett a’ piglià ‘o perdono». Jeff Bezos, criticatissimo dal vecchio-nuovo presidente durante il suo primo mandato, nello specifico era stato accusato di «utilizzare il Washington Post per accrescere il suo potere» e, di conseguenza, «convincere i politici a non tassare Amazon come dovrebbero». Bezos, dal canto suo, si era lamentato di vere e proprie rappresaglie politiche. Nel 2019, aveva spiegato che Amazon aveva perso un importante contratto di cloud computing con il Pentagono. Contratto che, per 10 miliardi di dollari, era andato a Microsoft. Bezos si era spinto oltre, affermando che Trump aveva fatto valere il suo ruolo per pilotare l’assegnazione.
Balzo in avanti: nel 2024, in vista delle presidenziali, Bezos ha dapprima bloccato un cosiddetto endorsement del Washington Post, il suo quotidiano, per Kamala Harris. Quindi, è stato a sua volta protagonista di un pellegrinaggio a Mar-a-Lago. Dove ha cenato, poco prima di Natale, con il presidente eletto e con l’immancabile Elon Musk. Come Zuckerberg, anche Bezos finanzierà la cerimonia di investitura del vecchio-nuovo presidente. Cerimonia che Amazon trasmetterà in diretta streaming.
Lo stupore, divertito, di Trump
Trump, pensando anche all’avvicinamento di Sam Altman, fondatore di OpenAI inviso a Musk, si è detto divertito di tutti questi salamelecchi del mondo Tech: «Durante il mio primo mandato – ha affermato – tutto il mondo mi combatteva. Ora, tutti vogliono essere miei amici. Non saprei, forse la mia personalità è cambiata».
In realtà, e al netto dei dovuti complimenti al presidente eletto, i colossi Tech vedono in Trump un alleato. Importante. Potente. Decisivo. Apple, pur proponendosi come un’azienda progressista, tramite il suo amministratore delegato Tim Cook aveva lavorato a stretto contatto con l’amministrazione Trump già durante il primo mandato. Continuerà a farlo pure a questo giro. Apple, in particolare, confida che il tycoon sappia «tenere a bada» l’Unione Europea, vera e propria spina nel fianco per il mondo Tech a stelle e strisce. Lo scorso 17 ottobre, Trump ha dichiarato: «Tim Cook mi ha detto che l’Unione Europea ha inflitto a Apple una multa di 15 miliardi di dollari. Tim, devo prima essere eletto. Ma non permetterò che si approfittino delle nostre aziende».
Un prezioso alleato
La domanda, concludendo, è se tutti questi capitani (coraggiosi) del settore Tech si siano allineati a Trump per convinzioni politiche o per semplice opportunismo. Sulle prime, verrebbe da dire la seconda. Un aspetto, questo, che potrebbe valere pure per il libertario Musk. L’orizzonte, dopo l’agenda di Biden, d’altronde è cambiato: Trump spingerà per deregolamentare e abbassare le imposte. Musica, per gli imprenditori. I quali, venendo alla Cina, potrebbero convincere Trump a limitare gli embarghi tecnologici e i dazi doganali che attanagliano la Silicon Valley.
La vera sfida, tuttavia, potrebbe e dovrebbe essere proprio quella con l’Unione Europea. Se è vero che i giganti del settore Tech si sono piegati alle norme sulla protezione dei dati, è altrettanto vero che sembrano molto meno inclini ad accettare una forte regolamentazione sull’intelligenza artificiale.
In fila. Uno dopo l’altro. Nel nome di un’America ritrovata o, se preferite, nuovamente protagonista. Da Meta ad Amazon, passando per Apple e tutti gli altri nomi grossi, tutti hanno fatto loro la massima di Andrew Ferguson, fresco di nomina alla guida della FTC, la Federal Trade Commission, l’Agenzia a tutela dei consumatori chiamata a prevenire ed eliminare pratiche anticoncorrenziali: «Veglieremo affinché l’America sia un leader tecnologico mondiale nonché il miglior luogo possibile perché gli innovatori diano vita a nuove idee».