«Mi sono pietrificato quando ho visto il poliziotto picchiare quel ragazzo»
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Abbiamo intervistato Valentin Gendrot che nel suo libro mette in luce anche le condizioni di lavoro sempre più difficili delle forze dell’ordine. Il libro, uscito in Francia nei giorni scorsi per le edizioni La Goutte d’Or, ha fatto scattare un’inchiesta da parte della prefettura di Parigi sul pestaggio di un minorenne di origini africane ad opera di un poliziotto. Dopo una formazione di tre mesi cominciata nel settembre del 2017, Gendrot diventa assistente alla sicurezza, il grado più basso nella scala gerarchica, e in un primo tempo entra nell’infermeria psichiatrica della prefettura di Parigi, per poi passare in un commissariato nel 19esimo arrondissement di Parigi.
Nel libro lei racconta, tra l’altro, di aver assistito al pestaggio di un adolescente da parte di un suo collega più anziano. Come si è sentito in quell’occasione?
«Ho una relazione particolare con la violenza: non appena c’è un momento di tensione mi blocco, sbianco e non riesco a fare nulla. È proprio quello che è successo quando quell’agente ha cominciato a picchiere un adolescente di origine africana di 16 anni. Ho guardato tutto, non ho perso neanche un attimo, senza però reagire. Avrei potuto bloccarlo, dirgli che si stava comportando in un modo inqualificabile, ma ero pietrificato. Inoltre, nel momento in cui è accaduto l’episodio ero appena arrivato e non avevo nessuna influenza all’interno del gruppo. L’aggressione si è conclusa con un falso rapporto, preparato per coprire l’agente, che porta anche il mio nome, anche se sinceramente non ricordo di averlo firmato. Vivo da più di un anno con questo peso sulla coscienza e tutto quello che mi interessa adesso è tornare sulla mia deposizione affinché venga fatta giustizia per quel ragazzo (su tale episodio la prefettura di Parigi ha aperto un’inchiesta subito dopo la pubblicazione del libro ndr)».
Ma dal suo racconto emerge anche un’omertà nei confronti di questi atti.
«Oltre a raccontare il fatto, mostro un sistema in cui è normale redigere un falso rapporto per proteggere un collega, cosa che in Francia è perseguibile con 15 anni di reclusione e una multa di 225 mila euro. È questo che oggi denuncio con il mio libro».
Qual è l’obiettivo della sua inchiesta?
«Mi interessava raccontare al grande pubblico quello che non sarebbe mai emerso senza un simile lavoro. Adesso mi piacerebbe che anche i poliziotti uscissero allo scoperto per denunciare questi modi di agire scorretti, visto che la maggior parte degli agenti non approva certi comportamenti. Nella mia brigata eravamo trentadue agenti e di questi solamente cinque o sei avevano atteggiamenti razzisti, una minoranza dunque».
Ci sono stati dei momenti in cui ha rischiato di essere scoperto?
«Sì, quando frequentavo la scuola di polizia di Saint Malo, in Bretagna. Una sera hanno trasmesso sul canale televisivo France 2 un’inchiesta alla quale avevo partecipato pochi mesi prima, anche in quel caso come giornalista infiltrato. Quella sera eravamo sette nella stanza, e uno dei miei compagni di formazione mi ha riconosciuto. È stato un momento molto difficile, in cui è stato necessario mantenere sangue freddo e dare una risposta pronta. Mi sono mostrato aggressivo, ho insultato il mio compagno aggredendolo verbalmente. Gli ho detto che quel tipo in televisione mi somigliava ma non ero io. Ho avuto un atteggiamento molto diverso da come sono in realtà, ma in quel momento è scattato un istinto di sopravvivenza».
Nel libro lei parla anche dei suicidi tra le forze dell’ordine, raccontando che proprio un suo collega si è tolto la vita.
«Ci sono molte cause dietro a questo tragico fenomeno. Le condizioni di lavoro sono sempre peggiori, con gli agenti costretti a comprarsi da soli il materiale, ad andare in giro con macchine mezze rotte e a lavorare in commissariati che cadono a pezzi. Poi c’è la violenza, che è all’ordine del giorno. Si comincia alle sei del mattino sorvegliando i detenuti in cella, tra puzza di urina, escrementi e sudore. A questi elementi si aggiunge una gerarchia assente, stipendi troppo bassi e una parte della popolazione che si mostra ostile nei confronti delle forze dell’ordine. È un mondo parallelo, in cui si è in continuo contatto con la miseria umana e sociale. A lungo andare la percezione del reale si deforma, fino ad arrivare a mostrare la vita solamente nel suo lato più duro. Essere poliziotto significa immaginare il peggio in qualsiasi momento, fino a diventare paranoici, diffidenti. Prima di questa esperienza ero una persona che non faceva particolare attenzione ai potenziali pericoli, ma poi sono cambiato anch’io».
Dopo l’uscita del libro è stato contattato dai suoi ex colleghi?
«Il giorno in cui è stato pubblicato il libro ho ricevuto un messaggio da uno di loro con cui avevo lavorato nel commissariato del 19. arrondissement. “Ho saputo la notizia, sono scioccato”, mi ha scritto, senza aggiungere altro».
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