Minacce alla CPI: «Non toccate Netanyahu o ne pagherete le conseguenze»
Il 24 aprile, un gruppo di dodici senatori repubblicani statunitensi ha inviato una lettera al procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI) Karim Khan, minacciando pesanti ripercussioni se l'Aja dovesse emettere mandati di cattura internazionali contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e altri funzionari israeliani. La notizia è stata diffusa lunedì 6 maggio dal sito d'informazione Zeteo, ma è stata ripresa solamente da una manciata di media internazionali (pochissimi quelli statunitensi) e non ha dunque raggiunto tutto il grande pubblico.
Toni minatori
«Scriviamo in merito alle notizie secondo cui la Corte penale internazionale potrebbe prendere in considerazione l'emissione di mandati di arresto internazionali contro il primo ministro Netanyahu e altri funzionari israeliani. Tali azioni sono illegittime e prive di base legale e, se eseguite, comporteranno severe sanzioni contro di voi e la vostra istituzione». Comincia così la lettera pubblicata in toto da Zeteo e inviata, appunto, da dodici membri del Senato statunitense. Ben visibili nomi e cognomi dei firmatari, a partire dal leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnell (Kentucky) e da Tom Cotton (Arkansas), Marsha Blackburn (Tennessee), Katie Boyd Britt (Alabama), Ted Budd (North Carolina), Kevin Cramer (North Dakota), Ted Cruz (Texas), Bill Hagerty (Tennessee, contitolare di Blackburn), Pete Ricketts (Nebraska), Marco Rubio (Florida), Rick Scott (Florida, contitolare di Rubio) e Tim Scott (South Carolina).
Nella missiva, contraddistinta da toni duri – anche minacciosi –, i dodici arrivano ad accostare l'operato della CPI alle azioni dell'Iran. «La Corte penale internazionale», affermano i senatori USA, «sta cercando di punire Israele per aver intrapreso azioni legittime di autodifesa contro gli aggressori sostenuti dall'Iran. Infatti, secondo le sue stesse parole, lei ha assistito a "scene di calcolata crudeltà" condotte da Hamas in Israele dopo gli attacchi del 7 ottobre. Questi mandati d'arresto allineerebbero la Corte penale internazionale al più grande Stato sponsor del terrorismo e al suo mandatario».
«Né Israele né gli Stati Uniti sono membri della Corte penale internazionale e quindi non rientrano nella presunta giurisdizione della vostra organizzazione. Se emettete un mandato di arresto per la leadership israeliana, lo interpreteremo non solo come una minaccia alla sovranità di Israele, ma anche alla sovranità degli Stati Uniti», avverte la missiva. «Gli Stati Uniti non tollereranno attacchi politicizzati da parte della Corte penale internazionale contro i nostri alleati. Se prendete di mira Israele, noi prenderemo di mira voi. Se procederete con le misure indicate nel rapporto, metteremo fine a tutto il sostegno americano alla CPI, sanzioneremo i vostri dipendenti e collaboratori e impediremo a voi e alle vostre famiglie di entrare negli Stati Uniti». Poi la conclusione, lapidaria: «Siete stati avvertiti».
La risposta
Venerdì scorso, 3 maggio, il procuratore della CPI Karim Khan, tramite un comunicato, aveva messo in guardia contro i tentativi di influenzare il tribunale. Sebbene la CPI «accolga con favore una comunicazione aperta» con funzionari governativi e organismi non governativi, si impegnerà in tale dialogo solo a condizione che sia «coerente con il mandato conferitole dallo Statuto di Roma di agire in modo indipendente e imparziale», aveva dichiarato Khan. «L'indipendenza e l'imparzialità sono però minate quando alcuni individui minacciano ritorsioni nel caso in cui l'ufficio, nell'adempimento del suo mandato, prenda decisioni su indagini o casi che rientrano nella sua giurisdizione». Quindi l'appello: che «tutti i tentativi di ostacolare, intimidire o influenzare impropriamente i suoi funzionari cessino immediatamente».
Al momento della pubblicazione del comunicato di Khan, il 3 maggio, l'esistenza della lettera firmata dai dodici senatori USA non era ancora stata rivelata. I media internazionali, dunque, avevano interpretato l'uscita del procuratore come una risposta a un altro gruppo di senatori – questa volta anonimi, ma appartenenti sia allo schieramento repubblicano sia a quello democratico – che un paio di giorni prima aveva avuto un incontro virtuale con i funzionari della CPI, sempre con l'obiettivo di dissuaderla dall'emettere mandati di arresto.
Col senno di poi, il comunicato di Khan, con i suoi riferimenti ai tentativi di «ostacolare, intimidire o influenzare impropriamente» la Corte, sembrerebbe piuttosto fare riferimento proprio alla lettera firmata da Mitch McConnell e colleghi, sebbene – aveva a suo tempo riferito il Times of Israel – Israele avrebbe compiuto numerosi sforzi già nelle settimane precedenti per convincere gli Stati Uniti a impedire l'emissione dei suddetti mandati.
Il problema
La Corte penale internazionale, è bene ricordarlo, è un tribunale per crimini internazionali la cui competenza è limitata ai reati più seri che riguardano la comunità internazionale: genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra, crimine di aggressione. La CPI (da non confondere con l'organo ONU CIJ, Corte internazionale di giustizia) può processare individui (non Stati) responsabili di tali crimini. I dodici senatori hanno ragione: come la Russia, né Israele né gli Stati Uniti hanno ratificato lo Statuto di Roma e non sono dunque Paesi parte della CPI. Ma attenzione: secondo lo Statuto di Roma, la Corte penale internazionale può operare in caso di crimini commessi da cittadini di uno Stato parte e/o in caso di crimini commessi su un territorio parte, a patto che esso non sia in grado di mettere in pratica autonomamente le proprie leggi in accordo con il diritto internazionale. Nella lettera inviata alla CPI, McConnell e colleghi evidenziano proprio quest'ultimo punto: «La Corte penale internazionale non può procedere in nessun caso, a meno che il governo in questione non voglia o non sia in grado di esercitare le proprie funzioni di sorveglianza». Per questo, indagare autorità israeliane, secondo i senatori USA, sarebbe sbagliato e significherebbe «mettere in discussione la legittimità delle leggi, del sistema legale e della forma di governo democratica di Israele».
Ma quest'osservazione, va sottolineato, sarebbe valida se i presunti crimini commessi da Netanyahu e gli altri funzionari israeliani – oggi sotto la lente di Khan – fossero avvenuti solamente in territorio israeliano. Considerata, invece, l'implicazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, la situazione si complica. Nel 2009 l'Autorità nazionale palestinese ha infatti accettato la giurisdizione della Corte penale internazionale. Dopo un tiro e molla di qualche anno, la Palestina ha infine potuto ratificare nel 2015 lo Statuto di Roma, pur non essendo riconosciuta come Stato sovrano all'ONU. Una ratifica che pone, di fatto, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est sotto la giurisdizione della CPI.
Considerato che, come detto, la CPI non applica una giurisdizione solamente personale (non è limitata al giudizio di presunti criminali che siano cittadini di Paesi membro), ma applica anche una giurisdizione territoriale (opera negli Stati membro indipendentemente dalla nazionalità di chi commette i presunti crimini), la CPI può presupporre competenze per il caso che vede Netanyahu e altri funzionari israeliani accusati di crimini contro la popolazione palestinese.