Nell’immensità del cielo un’impronta indelebile
Per alcuni quei giorni sono ancora lì, indelebili, nella memoria. Voci, immagini, sensazioni, emozioni. Per altri, si tratta solo di un sentito dire, frutto di racconti di chi c’era, di documentari, di libri, di fotografie. Sono passati cinquant’anni esatti da quel 20 luglio 1969 che cambiò per sempre il nostro modo di immaginarci esseri umani. Per la prima volta, qualcuno raggiunse un altro corpo celeste al di fuori della Terra. Un evento epico, rischioso, a tratti drammatico. Raccontato in diretta da persone che, grazie al loro sapere e alle loro competenze, portarono in tutte le case le missioni spaziali della NASA. Una di queste fu l’ingegnere Eugenio Bigatto che, assieme a Marco Blaser, lavorò alla diffusione di queste imprese per l’allora TSI. Lo abbiamo incontrato.
In cima alla valle Verzasca il cielo sembra un po’ più vicino. Quando incontriamo Eugenio Bigatto le nuvole giocano a nascondere il sole, creando un movimento di ombre sulle bellissime case in sasso di Sonogno. Scende qualche goccia di pioggia, anche. Ma lui, l’ingegnere che per più di un ventennio ha portato nelle case dei ticinesi l’eco – immensa, immortale – dell’epopea delle missioni spaziali della NASA, nemmeno ci bada. Bigatto, già direttore dell’azienda elettrica di Massagno, guarda più in su. Oltre quelle nuvole, oltre l’atmosfera. Lo ha sempre fatto, fin da quando era ragazzo. La Luna, l’astronomia, i fenomeni fisici, quella gravità terrestre che sembrava un confine invalicabile, quasi un segno divino. Eccole, le sue passioni. Praticamente un secondo lavoro, anche se a un certo punto stava per diventare un posto fisso. I ticinesi amavano quella voce, ed Eugenio – con una signorilità antica – se ne rallegra ancora oggi. «Ma la popolarità è qualcosa che sale e scende, dunque sì, mi fa piacere essere riconosciuto dalle persone. Però non mi sono mai montato la testa». I suoi occhi sono profondi, vivissimi, mentre dalla sua bocca sgorgano numeri, date, fatti. La storia di quella sensazionale epopea spaziale è passata da quella voce. La sua e quella del giornalista Marco Blaser. «Marco era lì con due o addirittura, mi sembrava, tre cuffie – spiega Bigatto nella tranquillità della sua casa di vacanza –. In collegamento da Bruxelles, da dove arrivava il segnale dell’Eurovisione, oppure da Houston o da Zurigo. Non so come facesse, ma se la cavava benissimo. La mia avventura cominciò quando ancora frequentavo il Politecnico. Nei dieci anni successivi la seconda guerra mondiale la fisica aveva fatto enormi passi avanti, c’era fermento in giro. Dei razzi, tuttavia, se ne parlava meno per via del triste ricordo legato alle famigerate V2 tedesche. Successivamente, i giganti tornarono a essere un tema per l’opinione pubblica anche perché Stati Uniti e Russia stavano provvedendo a dotarsi di un arsenale bellico di quel tipo. Fra gli studiosi iniziò dunque un acceso dibattito sull’utilità di questi razzi, e allo stesso tempo sorsero numerose associazioni nazionali di astronautica che si ritrovavano a scadenza annuale per dei congressi. In quello del 1956, a Roma, erano presenti due grandi delegazioni americane e sovietiche. Gli USA, nella loro ingenuità, presentarono ai partecipanti il loro programma spaziale, che sarebbe nato l’anno successivo in concomitanza con ‘‘l’anno geofisico internazionale’’ dell’ONU. I sovietici stettero zitti, ascoltarono. E l’anno successivo, il 4 ottobre, lo spazio fu solcato da un ‘‘bip, bip’’ misterioso. Era il segnale dello Sputnik russo, il primo satellite artificiale della storia. Tutto il mondo rimase fortemente sorpreso, mentre gli americani vennero colpiti nel proprio orgoglio. Ecco che allora nacque la corsa allo spazio, con la costituzione da parte del presidente Eisenhower della NASA. Io seguivo da appassionato tutte queste vicende. Mi ci trovai in mezzo, e così cominciò la mia collaborazione dapprima con la radio, successivamente con la televisione».
Poi venne il giorno. Quei giorni, in realtà, perché l’allunaggio avvenne il 20 luglio, la discesa di Neil Armstrong dalla scaletta del LEM il 21. «In quel momento provai una grande gioia» racconta Bigatto con la voce intrisa di ricordi, di sensazioni. «Assaporai una forte emozione, sopraffatta dal piacere di poter divulgare quegli istanti in diretta. Ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, quando ripenso a quelle ore avverto tanta soddisfazione, sì. Vedere quel piede posarsi lentamente e stampare la sua orma sulla faccia della Luna fu indicibile. E per chi, come me, lo ha vissuto, credo che il sentimento sia lo stesso. Qualcosa di condiviso, che unisce. Ma prima di arrivare lì, a quei giorni, la NASA aveva preparato minuziosamente ogni cosa tramite vari programmi: il Ranger, il Lunar Orbiter, il Surveyor, il Mercury, il Gemini e infine l’Apollo, l’apice di tutta la corsa alla Luna».
La corsa alla Luna si concluse con il programma Apollo. Lo scopo politico, prima ancora che scientifico, venne raggiunto. Ma cosa lasciò in eredità all’umanità un simile viaggio? «Quell’evento fu un unicum nella storia dell’uomo» riconosce Bigatto. «Prima dell’epopea dello spazio in pochi ci pensavano. Solo i romanzieri, oppure i grandi pensatori come Luciano di Samostata, duemila anni fa, immaginavano voli sulla Luna. La scienza, con la sua forza, ci arrivò molto tempo dopo. Porre l’impronta di una persona lassù fu un successo eccezionale per tutta l’umanità. Purtroppo, per lo spirito umano, non mi sembra che da allora ci sia stato un cambiamento. L’influenza dei programmi spaziali ci fu, sì, ma relativamente all’attività astronautica, all’astronomia, alla scienza nel suo insieme. La corsa alla Luna fu un forte acceleratore dei tempi, questo sì».
Il grande punto interrogativo, oggi, riguarda se mai ci torneremo sul nostro satellite naturale. «Andare sulla Luna per fare qualcosa di utile, in questo momento, non credo sia opportuno. Forse, potremmo immaginare quel posto come un trampolino di lancio verso altre destinazioni. Sulla Luna è stato un bene andarci, certo. Abbiamo scoperto una parte di ignoto, una conquista. Eppure è venuta a mancare la competizione fra due Paesi che volevano andare lontano per arricchire il proprio prestigio qui, sulla Terra. Ecco perché sono prudente nell’auspicare voli a breve termine. E poi mi sembra che abbiamo già molti problemi nel nostro mondo, concentriamoci dunque nella loro risoluzione». Il prossimo confine si chiama Marte, si dice. «Sarà l’età a frenare certe mie aspettative, tuttavia mi sa che ci vorranno ancora decine di anni prima di vedere l’uomo giungere sul pianeta rosso» commenta Bigatto. «Andare e tornare da Marte implica un viaggio di un anno e mezzo. Portare un uomo significa portare anche tanti problemi legati alla sua sopravvivenza. Abbiamo i mezzi? Sono sufficienti i cibi liofilizzati? C’è la reale volontà di andarci? Sono questioni profonde, che mi spingono a pensare a un futuro prossimo senza uomini su Marte».
Il Ticino, e la Luna diventa la Lüna
Il volume
Il Centro di dialettologia e di etnografia (CDE), in collaborazione con il dipartimento tecnologie innovative della SUPSI, ha presentato giovedì il 19. volume della collana «Le voci», dedicato alla Luna. L’indagine, condotta da Monica Gianettoni Grassi, si concentra sugli influssi della Luna sulla storia e sulla vita quotidiana dei ticinesi.
Come si dice
In dialetto, semplicemente, si parla di lüna. Ma ci sono alcune varianti. Eccole qui, elencate nel volume: luna, lüna; löna (Mendrisio, Castel San Pietro, Pedrinate), lüina (Aquila), lune (Breno), lüne (Medeglia, Sementina, Gerra Gambarogno, Fescoggia, Novaggio), luni (Sobrio), lünna (Soglio), lünn’a (Vicosoprano), lünö (Bironico), lunu (Preonzo, Claro, Iragna, Chironico), lünü (Gorduno, Landarenca).
Le caratteristiche
L’autrice elenca varie caratteristiche della Luna. L’alterità innanzitutto. La Luna come luogo di provenienza di chi ha poco contatto con la realtà: in dal mónd dala lüna, viv in dal mónd dala lüne, vigní gió dal mónd dala lüna. L’irraggiungibilità: voréi tochè la lüna coi did, el vuraréss la lüna. Un’irraggiungibilità che rischia di diventare fonte di fallimento: baiá in la lüna, o addirittura Nèe a morii in la lünü. La volubilità: patí la lüna, fá la luna, cambièe cula lüna, con tanto di aggettivo lünatigh. Quando l’umore è buono però si dice anche de bóna luna, in bóna lüna, vèss in lüna. Al contrario, quando l’umore è basso: da cativa lün’a, végh la lüna fò da pòst, végh la lüna stòrta.
Le filastrocche
Ci sono le filastrocche, dedicate alla Luna: Lüna, lüna dam danèi, da crumpá calz e calzèi: Luna, Luna dammi denari, per comprare calze e scarpe. Ci sono le cantilene: vüna la lüna, dó ol sóo, tré ol ré, quatar la bala, oppure unu le lunu, dó ul sóu, trè ul rè, quatru i scatul, o ancora: prim ul sóo, segund la lüna, tèrz i stèll, quart ul capèll. E le ninna nanne: nina nana bèll popò, végn la mama col cocò, nina nana popín de cuna, végn el pá e l te porterá la luna.
Le definizioni
Qualcuno vi ha mai dato del pampalüna? O del bastonaluna? O forse del sfilzalüna? Sappiate che pensavano a voi, rispettivamente, come dei lunatici, degli sciocchi o dei saputelli. Più facile è stralünaa: stralunato. Lo siamo stati tutti, stralünaa.