«No, quella di Israele a Gaza non è una vendetta»
L’attacco di Hamas. Terribile. Disumano. La risposta di Benjamin Netanyahu e la guerra totale contro il gruppo islamista palestinese. Le bombe su Gaza. Gli attestati di solidarietà. Ma anche le critiche. Israele sta vivendo giorni difficili. Anzi, difficilissimi. E concitati. Ne abbiamo parlato con Ifat Reshef, ambasciatrice dello Stato Ebraico in Svizzera.
Signora ambasciatrice, cominciamo dall’attualità più stretta: aveva auspicato che la Confederazione riconoscesse Hamas come un’organizzazione terroristica e, poche ore più tardi, il Consiglio federale ha annunciato di voler agire in questo senso. Della serie: le parole e le definizioni sono importanti, o no?
«Sì, indubbiamente. Innanzitutto, saluto la decisione del Consiglio federale. Credo che quello annunciato sia un passo importante nella giusta direzione. Sono avvocato di formazione, perciò posso confermare che le parole e le definizioni hanno un peso. Certo, ora è importante che l’implementazione avvenga velocemente. La Svizzera entrerà in un club molto rispettato. Quello, appunto, delle nazioni che hanno dichiarato Hamas un’organizzazione terroristica: ci sono gli Stati membri dell’Unione Europea, il Regno Unito, gli Stati Uniti e altri attori del Medio Oriente».
Perché era importante che la Svizzera non solo condannasse le barbare incursioni di Hamas di sabato scorso ma, dicevamo, si aggiungesse a questo club ristretto?
«Perché la Svizzera si trascina appresso un peso e una responsabilità. È un Paese che ha dato un contributo enorme al diritto internazionale. Ed è un Paese membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU. In generale, è importante che le democrazie del mondo siano unite nel condannare simili gesti. E che definiscano Hamas per quello che è: un’organizzazione feroce e assassina. Sfortunatamente, ne abbiamo avuto una prova sabato scorso. Israele ha pagato e sta pagando un dazio terribile in termini di vite umane».
Il Consiglio federale ha anche garantito che farà il possibile per proteggere, in Svizzera, la popolazione di religione ebraica. Quanto è forte, da parte vostra, il timore che, nella Confederazione ma non solo, gli ebrei possano essere presi di mira da attacchi o manifestazioni di odio? E quale supporto potete dare, concretamente, a Berna nel prevenire simili scenari?
«Come israeliani, siamo sempre preoccupati. Sempre. Uno dei motivi per cui, a suo tempo, fu creato lo Stato di Israele era proprio garantire un posto sicuro agli ebrei. Dopo la barbarie dell’Olocausto, era necessario. Olocausto e pogrom sono parole che, ahinoi, sono tornate di strettissima attualità quando abbiamo aperto gli occhi sabato scorso e abbiamo visto tutto quell’orrore. Venendo alla domanda, abbiamo già notato dopo gli attacchi di Hamas molta propaganda anti-israeliana. Stiamo ancora contando i morti e non abbiamo neppure iniziato con le sepolture. Ma vediamo che questo meccanismo di discredito e incitamento all’odio verso Israele continua. Con forza. E sembrerebbe anche funzionare. Detto questo, le persone di religione ebraica in Svizzera sono nella maggior parte cittadini svizzeri. E io, personalmente, nutro molta fiducia nelle autorità elvetiche. Faranno tutto il necessario per garantire la sicurezza di tutti i cittadini della Confederazione, ebrei inclusi».
Israele e la religione ebraica da sempre sono un argomento polarizzante e divisivo. Non solo, attorno al vostro Paese circola anche molta disinformazione. Lo abbiamo visto pure in occasione degli attacchi di Hamas. Come reagite a questo clima?
«Sono l’ambasciatrice di un Paese democratico. E sono una ferma sostenitrice della libertà di parola. Ma credo che, in momenti del genere, sia necessaria una maggiore responsabilità. Esiste una linea di separazione fra, come detto, libertà di parola e pensiero, fra una critica puntuale che può anche fare male o dare fastidio ma rimane una critica, e un feroce incitamento all’odio che, tendenzialmente, può portare alla violenza».
Fra le critiche che vi sono state mosse c’è quella di aver reagito in maniera sproporzionata. Le Nazioni Unite, fra gli altri attori, chiedono una maggior protezione dei civili di Gaza. Qual è la posizione di Israele al riguardo?
«Chiedo a chi ha criticato Israele come si sentirebbe se si svegliasse al suono delle sirene, se sentisse le urla di aiuto e dolore dei suoi vicini, se sentisse i terroristi irrompere in casa, uccidere anziani e bambini. Come reagirebbe, soprattutto? Che cosa vorrebbe facesse la sua nazione di fronte a 1.300 concittadini assassinati, macellati, giustiziati? Non chiederebbe, forse, al proprio governo di difendere la sua vita e quella dei suoi figli?».
Ma i bombardamenti su Gaza sono una vendetta, dunque?
«No. E lo voglio sottolineare forte e chiaro. La nostra operazione militare non è una vendetta. Non ci stiamo vendicando delle azioni di Hamas. Stiamo combattendo per difendere la vita dei nostri concittadini, delle nostre comunità. Nel sud del Paese ci sono intere comunità distrutte. Fisicamente, mentalmente, emozionalmente. Le loro case sono state bruciate. Non sembrano villaggi israeliani, ma villaggi della Siria o dell’Iraq dopo il passaggio dello Stato Islamico. E le foto e i video che hanno iniziato a circolare sono soltanto l’inizio. Stiamo rilasciando sempre più materiale. Ma prima, dobbiamo garantire la sicurezza delle aree colpite. Abbiamo ancora paura di nuove incursioni o di trappole».
Davvero non esiste altro modo di combattere Hamas se non bombardando Gaza e, parallelamente, tagliando ogni forma di approvvigionamento?
«Ripeto: a Gaza stiamo assicurando la vita dei nostri concittadini. Se non lo facciamo, se non smantelliamo militarmente Hamas, i terroristi torneranno e ci daranno ancora la caccia. Quanto ai civili: non stiamo combattendo contro i civili di Gaza. Anche questo lo voglio dire chiaro e forte. Il problema è che Hamas e le altre organizzazioni terroristiche presenti nella Striscia stanno commettendo un doppio crimine contro l’umanità».
In che senso?
«Nel senso che i terroristi di Hamas non soltanto hanno attaccato la popolazione israeliana, una chiara violazione del diritto internazionale, ma hanno nascosto il loro quartier generale, le loro munizioni e i loro laboratori per costruire esplosivi nelle aree densamente abitate e vicino alle infrastrutture civili. Esponendo gli abitanti di Gaza al pericolo. Anche qui, si tratta di una chiara violazione del diritto internazionale. È questa la situazione che stiamo affrontando a Gaza in questo momento».
Quindi, in un certo senso, Israele non può garantire per i civili di Gaza?
«Posso garantire che non stiamo colpendo intenzionalmente obiettivi civili. No, stiamo combattendo Hamas e le sue infrastrutture. Abbiamo visto tutti quanto sia reale e potente la minaccia di questi terroristi. Non solo sono cattivi, ma hanno la capacità di condurre attacchi nel territorio di Israele. Se non annulliamo Hamas, Dio non voglia, ci sveglieremo ancora di fronte all’orrore di sabato scorso».
Come si convive con questo perenne senso di instabilità? La storia di Israele, per quanto breve se pensiamo allo Stato, è ricca di eventi tormentati.
«La storia di Israele parla da sola, è vero. Ma devo dire che quanto accaduto sabato scorso è qualcosa di inaudito e inimmaginabile. È una novità, un passo in avanti in termini di violenza e odio. E di barbarie nei nostri confronti. Le zone colpite da Hamas, in un certo senso, erano abituate al lancio di razzi. Mai, nemmeno nei loro incubi peggiori, si sarebbero tuttavia aspettate un massacro così atroce. Mai, dopo l’Olocausto, avevamo vissuto un giorno del genere. Nel quale abbiamo perso così tanti ebrei. La storia, però, stava cambiando. Sta cambiando».
Si riferisce alla normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita e, in generale, agli sforzi diplomatici di Israele con il mondo arabo?
«Citerei, innanzitutto, lo storico accordo di pace con l’Egitto, che pose fine a un’epoca di guerre fra i Paesi arabi e Israele. Ma anche le relazioni con la Giordania. Al momento, la nostra unica minaccia è legata a un Paese che non è nemmeno nostro vicino, l’Iran, ma che lavora di concerto con attori parastatali. Hezbollah in Libano, Hamas e la Jihad palestinese, milizie sciite in Iraq e gli Huthi in Yemen. Israele, dal canto suo, negli ultimi tre anni ha compiuto enormi passi verso la normalizzazione delle relazioni con le nazioni arabe. Un processo senza precedenti che, per contro, è stato usato come pretesto da Hamas, Hezbollah e dall’Iran per sabotare i risultati incredibili ottenuti dalla nostra diplomazia».
Torniamo a Israele come tema polarizzante: perché, anche nel contesto di questa guerra, c’è chi sta proponendo una visione e una narrativa simili a quelle dei tifosi allo stadio? Possibile che i fatti non riescano a prevalere? Indipendentemente dall’opinione che uno ha dello Stato Ebraico, quanto successo sabato scorso è un atto di terrorismo.
«Questo è un punto importante. Ripeto: c’è una linea che separa la critica, anche dura, dall’incitamento all’odio. La Svizzera, nei nostri confronti, ha sempre mantenuto un atteggiamento positivo. E si è impegnata ad adottare la definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance di antisemitismo, per cui sempre più persone si nascondono dietro accuse collettive contro Israele per, allargando il campo, incitare l’odio contro la popolazione ebraica nel mondo».
Le piattaforme social sono già state bacchettate su questo aspetto. Condivide la dura reprimenda dell’Unione Europea nei confronti di Meta e X?
«La responsabilità di tracciare quella linea, beh, spetta a tutti noi. Bisogna capire che ci sono opinioni legittime e, dall’altra parte, opinioni che sconfinano nell’odio. Sono due cose differenti. Dobbiamo chiederci, come collettività, che cosa abbia contribuito a questi barbari attacchi. Vorrei anche attirare l’attenzione sui cosiddetti raduni e sulle assemblee di solidarietà nei confronti dei palestinesi. Assicuriamoci che non si trasformino in spettacoli di incitamento contro Israele e glorificazione per Hamas».
Ma che futuro vede, lei, per Israele? Un futuro normale o un futuro caratterizzato da odio, bombe, operazioni militari? Israeliani e palestinesi troveranno una via comune, insomma?
«Torno agli Accordi di Abramo con l’Arabia Saudita, alla pace con l’Egitto, alle relazioni con la Giordania. Ai tesori, ai nostri tesori diplomatici di cui siamo fieri. Questa nuova era di normalizzazione tra Israele e Paesi arabi è basata sulla cooperazione. In settori importanti per l’intera regione. Non solo nella lotta al terrorismo e alle minacce che minano la nostra sicurezza e quella di altri Paesi, ma anche nella ricerca di soluzioni a sfide comuni come l’energia, il cibo o l’approvvigionamento idrico. La popolazione di Israele è giovane, così come la popolazione di tutto il Medio Oriente. Non ha bisogno di guerra, ma di opportunità di lavoro, sicurezza, stabilità economica. E soluzioni, come ho detto, per il domani. Solo lavorando insieme, con altri Paesi, tutto questo sarà possibile. Il problema è che nella regione ci sono attori molto, molto cattivi, sostenuti da denaro, armi e guida militare dell’Iran. Attori che vogliono interrompere questo processo di normalizzazione, favorendo un’era caratterizzata dalla violenza. È molto difficile per me, questa settimana, parlare del futuro dopo tutto quello che abbiamo vissuto come israeliani».
Che settimana è stata, per lei e per i suoi concittadini? Come la descriverebbe?
«Siamo ancora nel mezzo del dolore. E del lutto. Piangiamo i nostri morti. Ma, per quanto complicato, dobbiamo continuare a parlare di futuro. A immaginare un futuro. A un futuro di pace e prosperità con i nostri vicini. Sarà forse un processo lento, graduale. Ma accadrà. Sì, accadrà».
Un futuro in cui gli arabi continueranno a essere parte integrante di Israele e della regione.
«Viene sottaciuto troppo spesso il fatto che non tutti gli israeliani siano ebrei. Circa il 20% della nostra popolazione, infatti, è araba. E ha subito attacchi da parte di Hamas e altre organizzazioni terroristiche. Anche gli arabi israeliani hanno pianto. E sofferto. Proprio come gli ebrei. Sono e saranno sempre parte della nostra società».
Torniamo, in conclusione, a una delle ultime domande. Di nuovo: sogna un futuro in cui non la popolazione israeliana non verrà risvegliata dal suono delle sirene?
«Sì, certo che sogno tutto questo. La pace è un sogno che non sparirà mai. Lo dico anche da genitore. Tutto quello che vogliamo noi israeliani è un futuro migliore e più sicuro per i nostri figli. Gli Accordi di Abramo vanno proprio in questa direzione. Detto ciò, devo anche essere realista. Al momento viviamo in un quartiere molto duro e pericoloso. E dobbiamo essere forti. Non solo, dobbiamo dissuadere i nostri nemici e dobbiamo assicurarci che i nostri nemici non abbiano la capacità di dare la caccia ai nostri figli. Come successo sabato scorso. Quindi sì, al termine di questa settimana terribile, davvero terribile, dobbiamo rimanere ottimisti. Dobbiamo credere nel futuro, in un futuro nel quale ci sarà la pace».