«Non ho più famiglia né casa, se ci penso non riesco a respirare»
«Non so come ho fatto a salvarmi. Un caso, dovevo essere lì con loro. Sono una sopravvissuta, e sopravvivere ai propri affetti è un dolore lancinante». Come una sliding door può cambiare la vita, persino proteggendola. È sconvolta Annalee Milstein, residente nel Kibbutz Be’eri, a sei chilometri dalla recinzione orientale con la striscia di Gaza, uno dei più colpiti dalla furia omicida dei miliziani di Hamas che, sabato scorso, hanno compiuto il massacro di israeliani. Annalee è nata e cresciuta nel kibbutz. Il luogo è famoso per i suoi raccolti, spesso bruciati dai palloni incendiari e dai droni che arrivano da Gaza. Vive lì con il marito, i suoceri e il resto della famiglia, ma venerdì, approfittando della fine delle feste, era andata a un party musicale in un’area più a sud. Ed è stata la sua salvezza.
La risposta: sono tutti a Gaza
I miliziani di Hamas e Jihad islamico palestinese, poco prima delle sette del mattino di sabato, hanno rotto la barriera di protezione con Israele e sono avanzati verso il kibbutz. Qui, non riuscendo a entrare, hanno aspettato, nascosti nelle frasche nei pressi del posto di guardia, il passaggio di un’auto. L’hanno bloccata, hanno ucciso il conducente membro del kibbutz e, sfruttando le sue chiavi, hanno spalancato il grande cancello giallo esterno, alzato la sbarra e sono entrati. Hanno ucciso tutte le guardie, prendendo le loro armi. Poi hanno cominciato ad andare casa per casa, uccidendo e prendendo ostaggi. «Mentre eravamo alla festa - dice Annalee -, quasi sulla via del ritorno, sulla chat del kibbutz cominciavano ad arrivare richieste di aiuto. I nostri parenti erano asserragliati nei rifugi con i terroristi fuori. Si sono svegliati con i colpi di arma da fuoco, sentivano urlare in arabo, sentivano le urla dei vicini. Hanno svegliato i bambini e sono corsi nella safe room, vedevano avvicinarsi i terroristi armati. Per farli uscire, questi hanno dato fuoco alla casa. In quel momento a casa nostra c’erano undici persone: i miei suoceri, che hanno nazionalità tedesca; mia cognata con il marito e due figli di tre e otto anni; la sorella di mia suocera con il marito, che sono italiani; il fratello di mio suocero con la figlia di dodici anni e la badante di uno di loro. Si erano riuniti per l’ultimo giorno di festa, avevano la capanna fuori di Sukkot e aspettavano la sera per la cena rituale. Leggendo i messaggi, abbiamo chiamato aiuto, cominciando a telefonare a loro e ai vicini, ma il telefono dei miei suoceri squillava invano. Dopo qualche ora un amico ha riprovato a chiamarli e ha risposto una persona che, in un ebraico stentato con accento arabo, ha detto che erano tutti a Gaza. Mi è crollato il mondo addosso».
Quel kibbutz era luogo di vita
Annalee non si dà pace. Per lei quel Kibbutz che è stato ora completamente evacuato e distrutto, era il luogo della vita, dei ricordi. «Sono terrorizzata all’idea di dover tornare in quel posto. Non so - dice tra le lacrime - se è più casa mia. Non riesco a riconoscerlo. Era un luogo fatato per me, nel verde. Ora è un deserto». La casa sua e di suo marito è totalmente distrutta, bruciata. Quando sono andati a fare la denuncia e a dare il dna per il riconoscimento, un soldato ha dato loro un video della loro abitazione avvolta da una coltre nera. E la sua famiglia acquisita è scomparsa. «Sono spaventata, non riesco a respirare quando ci penso, mi sale l’ansia. Non sapere nulla di loro è spaventoso. La mia casa è l’ultima cosa a cui penso, mi interessa sapere della mia famiglia. Io credo che nessuno possa tornare a vivere lì». Nessuno del governo l’ha contattata. «Nessuno. Io sono furiosa con loro, non riesco neanche a pensarci da quanto sono furiosa. Siamo in modalità sopravvivenza. Oggi non possiamo neanche pensarlo, verrà dopo. Non ho parole per dire come mi sento. Io ho perso qualsiasi credo e fiducia nel mio Paese, nel mio esercito, verso il quale va la maggior parte del denaro pubblico. Spero che i governi dei Paesi della mia famiglia, italiano e tedesco, si muovano di più del nostro per farceli trovare».
Erano scampati all’Olocausto
Fatica a capire, Annalee. «Come tutti i giovani israeliani, anch’io ho fatto il servizio militare e non riesco a darmi una spiegazione. Certamente hanno pianificato per molto tempo la cosa e hanno agito sul posto contro di noi con la ferocia di quelli dell’Isis». La cosa che più le pesa, ora, è «non sapere nulla della mia famiglia. È qualcosa di inimmaginabile. Tra l’altro il cognato di mia suocera è gravemente malato. Non hanno avuto rispetto dei bambini, degli anziani, delle donne. Possiamo solo sperare siano vivi. Io non capisco, non realizzo ancora cosa sia successo, è troppo più grande di noi. Io dovevo essere con loro. Nei giorni precedenti eravamo tutti insieme, abbiamo trascorso insieme le festività come sempre. Gli zii di mio marito andavano spesso in Italia, a Livorno, volevano comprare casa lì». E ora dove andrà, Annalee? «Sono troppo scossa. Ho paura di andare a vedere. Consideri che sono nata e cresciuta lì. Pensi che i miei suoceri sono nati nel kibbutz. I loro genitori erano stati tra i fondatori della nostra comunità. Si trovavano qui dopo essere sopravvissuti all’olocausto. Siamo alla seconda generazione di sopravvissuti a quella tragedia. Sabato hanno rivissuto la stessa esperienza di quei terribili giorni. Se penso a loro chiusi tutti dentro la safe room con i terroristi fuori, credo che abbiano rivissuto i racconti dei loro genitori circa l’olocausto. E per noi è un nuovo olocausto».