«Non vogliamo cibo né medicine, chiediamo “soltanto” la pace»

«Non vogliamo cibo, aiuti o medicine. Chiediamo solo pace. Bisogna fermare la guerra ora. La pace è l’unica possibilità e la migliore soluzione a tutti i mali. E sono sicuro che questo pensiero è condiviso a Gaza come in Israele». Ha le idee chiare il dottor Maher Ayyad, direttore sanitario dell’Al Ahli Arab Hospital di Gaza City, la struttura sanitaria che, dopo essere stata colpita per la quinta volta domenica, è stata resa inagibile in larga parte.
«Da quando è stato chiuso l’ospedale Al Shifa - dice il medico al telefono da Gaza - il nostro era l’unico ospedale funzionante al nord. Nonostante la nostra sia una piccola struttura, la più antica di Gaza, abbiamo dovuto attrezzarci a ospitare centinaia di pazienti. E così, dagli ottanta posti letto che avevamo prima della guerra, siamo arrivati a ospitare 5-600 persone al giorno. Ma con l’aiuto di Dio lo abbiamo fatto. Dopo l’arrivo del cessate il fuoco, pensavamo che il numero dei pazienti scendesse. E invece con l’inizio dei nuovi bombardamenti la situazione è anche peggiorata, anche perché dopo la tregua da sud sono ritornate al nord centinaia di migliaia di persone».
Fondato nel 1882, l’Ospedale, conosciuto anche come Battista, perché gestito dalla diocesi Anglicana di Gerusalemme, è da sempre riconosciuto come una struttura d’eccellenza. Prima della guerra, l’Ahli gestiva un programma completamente gratuito per la diagnosi precoce del cancro al seno nelle donne di età superiore ai 40 anni. Inoltre, il Centro per donne anziane e il Programma cliniche mobili fornivano assistenza medica e cibo gratuiti. Ayyad sarebbe in pensione ma è rimasto a dare una mano e poi, scoppiato il conflitto, non ha fatto mancare la sua presenza. Chirurgo, si è impegnato sia nella gestione dei pazienti che della struttura, ma anche nell’istruire i giovani studenti che, viste le emergenze, sono diventati chirurghi.
Domenica non era nella struttura, dove ci sono ancora una quarantina di malati. Insieme agli altri colleghi è corso ad aiutare per cercare di mettere in sicurezza i malati evacuati. Lui a ottobre di due anni fa, poco dopo l’inizio della guerra, mentre era in ospedale per eseguire operazioni, ha saputo che un attacco israeliano aveva distrutto la sua casa. Non ha paura? «Sappiamo che Dio ci protegge. Il nostro compito è di aiutare chi ha bisogno fino a quando possiamo. Abbiamo speranze. Siamo tutti umani, vogliamo vivere in pace come era prima, anzi, di più. Tutti hanno il diritto di vivere così, senza costrizioni o paure».
La situazione sanitaria è drammatica: come denunciato dal ministero della salute locale, sono 36 gli ospedali distrutti a causa della guerra. Si sta lavorando per rimettere in sesto il Kamal Adwan, è stato attaccato il retro dell’ospedale da campo kuwaitiano, mentre l’Al Amal, l’ospedale di Khan Yunis il cui capo infermiere è stato minacciato di morte dopo aver denunciato che la struttura era sotto il controllo dei miliziani, è stato svuotato localmente.
Diritti di cittadinanza per tutti
«Gli estremi si parlano con le armi e, di fatto, questi due estremi hanno creato i più grandi problemi agli uni e agli altri». Così si esprime, da Gerusalemme, rispetto ai due schieramenti estremisti di questa guerra, fra Francesco Patton, da nove anni Custode di Terra Santa, responsabile della speciale provincia francescana che da ottocento anni gestisce i luoghi sacri e molte istituzioni assistenziali, culturali ed educative, in Israele, Palestina, Libano, Siria, Giordania, Cipro. Egitto e Rodi. Patton auspica la pace e, finalmente, una convivenza pacifica fra i due popoli. Ma la strada è tortuosa. Anche perché, spiega il Custode, «il 7 ottobre si è creato un grave cortocircuito con l’attacco di Hamas e la reazione dello Stato israeliano. Di fatto quella iniziativa di Hamas è stato il più grave danno fatto alla causa palestinese. Quindi da un certo punto di vista diventa, paradossalmente, sempre più difficile trovare una soluzione politica e al tempo stesso sempre più necessario, perché la questione è proprio quella del dare una risposta, finalmente, dopo tanti decenni, alla questione palestinese, in modo tale che ci sia per prima cosa un riconoscimento reciproco del diritto ad esistere. Non si può prescindere da questo».
Il confronto con nove anni fa, ai tempi del suo arrivo, è un esercizio drammatico. «All’epoca posso dire che tutto era più sereno per poi, progressivamente, peggiorare. C’è stato un momento importante che ha accelerato un fenomeno culturale di aumento dei fondamentalismi: l’approvazione della Basic Law del 2018. Di fatto ha comportato l’approvazione di uno Stato “confessionale”. Si è introdotto un elemento di discriminazione sulla base di una appartenenza che non è solo etnica ma anche religiosa. Questa legge è fortemente contestata più o meno dal 50% degli israeliani, che ha una visione più laica e secolare della vita. Ma nonostante ciò, ha inciso nella determinazione degli eventi successivi perché ha favorito poi la crescita dei movimenti più estremisti. Dal 2018 in poi abbiamo visto aumentare progressivamente gli atti di intolleranza, di violenza, di mancanza di rispetto anche nei nostri confronti. Cosa che ha anche mostrato il lato della società israeliana più moderato, che ha denunciato e denuncia questi estremismi».
E dal lato palestinese? «Anche lì hanno cominciato a prevalere gli estremismi, in questo clima si rafforza Hamas, un gruppo armato che ha fatto il più grave e il più grande danno ai palestinesi perché durante una presidenza come quella di Abu Mazen, moderata e sicuramente non violenta e favorevole al dialogo, ha introdotto un elemento scardinante, ha dato l’assist all’estrema destra israeliana contraria sia alla nascita di uno Stato palestinese sia a qualsiasi forma di dialogo».
Quindi, aggiunge Patton, sono due visioni sostanzialmente speculari, perché nello statuto di Hamas c’è l’eliminazione d’Israele per realizzare una Palestina che vada dal fiume al mare e nel progetto dichiarato dell’estrema destra israeliana c’è il progetto del grande Israele che vada dal fiume al mare nel quale non c’è spazio per uno Stato di Palestina».
Come si può superare questa fase di impasse? «Innanzitutto occorre la ripresa del dialogo, e deve esserci il riconoscimento di una qualche forma di sovranità. Israele ce l’ha già sui propri territori, i palestinesi no, sono soggetti a una forma di governatorato militare sulla stragrande maggioranza del proprio territorio, e poi non possono esserci cittadini di serie A e di serie B, e soprattutto non si possono fare discriminazioni legate all’appartenenza etnica o all’appartenenza religiosa, perché va contro i diritti fondamentali non solo dell’ONU ma anche della stessa visione ebraico-cristiana della persona».
In che modo la religione può aiutare? Il Custode di Terra Santa riflette: «L’idea stessa biblica che tutta l’umanità discenda da un’unica coppia, al di là della scientificità o meno, ha un valore filosofico e teologico, perché vuol dire che abbiamo tutti la stessa origine. E se abbiamo tutti la stessa origine, questo significa che tutti proveniamo appunto da Dio e dobbiamo in qualche modo, anche noi, riconoscere gli uni agli altri la stessa dignità. Bisogna partire dal concetto di base, di uguaglianza e fratellanza. A me fa sempre impressione quando leggo nel Libro della Genesi il primo omicidio che è quello di Caino che uccide Abele, e Dio che dice a Caino “il sangue di tuo fratello grida dalla terra”, ecco questa terra ormai è intrisa di sangue e questo sangue grida a Dio».