L'approfondimento

Partiamo per la Germania: il mito della Trabant

Il 2025 segna il trentacinquesimo della riunificazione della Germania, avvenuta il 3 ottobre 1990: insieme alla caduta del Muro di Berlino, concentra nella sua forza simbolica la ritrovata unità dell’Europa, alla fine della Guerra fredda
Birgit Kinder Test the Best, bekanntes Motiv (Trabi). © Jens Lordan/East Side Gallery/Wikipedia
Luca Lovisolo
01.02.2025 19:00

Dopo aver parlato su queste pagine di Ucraina e di Russia, partiamo per una nuova avventura. Il 2025 segna il trentacinquesimo della riunificazione della Germania, avvenuta il 3 ottobre 1990: insieme alla caduta del Muro di Berlino, concentra nella sua forza simbolica la ritrovata unità dell’Europa, alla fine della Guerra fredda. Partiremo dalle vicende della Germania divisa e giungeremo all’unificazione, considerando le fatiche, le contraddizioni, ma anche il genio di chi seppe ricavare il meglio possibile dalle difficili condizioni esistenti. Ci avviamo a questo viaggio, come si addice, con un mezzo di trasporto che è simbolo indiscusso di quella stagione: la Trabant. La piccola utilitaria prodotta in Germania est è metafora della limitata mobilità permessa ai cittadini dell’Europa orientale, ma anche dell’ingegnosità di chi riesce a produrre un’auto con le fabbriche cadute in macerie sotto le bombe della guerra, quando la Germania est non riceve forniture di componenti e materie prime, se non dagli altri Paesi a regime comunista. Eppure, chi inventa la Trabant crea quasi dal nulla un mito che perdura sino a oggi.

Le radici insospettabili della Trabant

Perché «quasi» dal nulla? È difficile crederlo, ma la Trabant è discendente indiretta di due marche d’automobili di alta gamma. L’ingegner August Horch era stato dipendente di Carl Benz, creatore della Mercedes Benz; nel 1899 Horch si mette in proprio, fonda una fabbrica di automobili che porta il suo cognome e la insedia a Zwickau, in Germania orientale. Poi, in polemica con i suoi amministratori, Horch apre una nuova fabbrica, ma per ragioni giuridiche non può più chiamarla con il proprio cognome: la battezza con il corrispondente in latino. In tedesco, «Horch» suona come «ascolta»: nasce così il marchio Audi, dal verbo latino audire.

La ditta Horch prosegue la produzione di auto di lusso, ma il suo stabilimento viene danneggiato durante la Seconda guerra mondiale. Lo stabilimento Audi, poco lontano, viene risparmiato dai bombardamenti. Alla nascita della Repubblica democratica tedesca – lo Stato della Germania est – entrambe le fabbriche vengono riunite e incamerate dallo Stato sotto il nome Sachsenring, ripreso da uno dei modelli più prestigiosi della vecchia Horch. Ecco perché sul cofano della Trabant spicca il marchio formato da una lettera esse slanciata, come Sachsenring.

Il marchio Audi viene acquisito in Germania ovest, mentre a est, negli stabilimenti ex Audi ed ex Horch, i progettisti pensano a come attuare la direttiva del governo che chiede «un’automobile piccola, per due adulti e due bambini, che consumi poco e costi meno di 4000 marchi», ricorda Werner Reichelt, a quel tempo vicedirettore dello sviluppo materiali pressati.

Il mondo delle piccole auto

Dobbiamo ricordare come si muove il mondo in quegli anni: le persone si spostano in bicicletta, in ciclomotore o con mezzi a trazione animale, ma la ricostruzione del Dopoguerra suscita nuove esigenze di mobilità. Nascono micro-vetture metà motociclo e metà utilitaria: la tedesca Goggomobil, l’italiana Isetta. Vi ci entrano a stento due persone, sono mosse da motori di potenza bassissima. Escono le prime utilitarie a quattro posti: la FIAT 600, in Italia; la Mini, in Inghilterra; in Germania ovest riprende la produzione del Maggiolino. Diventano protagoniste della motorizzazione dell’Europa occidentale, durante il boom degli anni Sessanta.

In Germania est, intanto, gli ingegneri vogliono realizzare qualcosa di simile, ma non hanno risorse. «Mancava la lamiera, l’Unione sovietica non era in grado di fornircela e dai Paesi occidentali non arrivava a causa dell’embargo», racconta Wolfgang Barthel, dirigente dello stabilimento. Produrre automobili sembra impossibile, finché Barthel non sviluppa un materiale pressando resina sintetica con un tipo di cotone scartato dall’industria tessile: lo chiama Duroplast, è solido quanto basta per ricavarne una carrozzeria. Siamo nel 1955: la produzione della Trabant non è ancora matura. Esce una vettura dalle forme più arrotondate e dal nome più prosaico, la P70. I test di carico confermano la fiducia nella carrozzeria di Duroplast.

La Trabant si avvicina

Due anni dopo è la volta di un nuovo modello, la P50. Conserva le forme bombate della P70, ma è costruita su una moderna struttura a pianale, abbandonato il vecchio telaio a longheroni. Identificare la nuova auto con una sigla non piace. Lo stabilimento lancia un concorso fra le maestranze: un addetto al reparto presse propone Trabant, che in tedesco significa satellite. Vince: il nome ricorda la ricerca spaziale, in quei decenni il non plus ultra della modernità, ma fa pensare anche a un’auto che segue ovunque chi la possiede. È nata la Trabant P50, o Trabant 500.

La concezione dell’auto è all’avanguardia, per il suo tempo: trazione anteriore, motore e cambio trasversali; la limitata potenza del propulsore, un bicilindrico di 500 cc alimentato a miscela, viene elevata più tardi con l’uscita della Trabant 600. L’insolita leva del cambio resterà invariata per tutta la storia della vettura: un manico incardinato a lato del volante. L’estetica, invece, non propone rivoluzioni, resta una piccola tre volumi.

Per concetto e dimensioni, la Trabant è una via di mezzo: non è né una FIAT 600 né un Maggiolino, ma è più spaziosa delle vetture-motociclo Goggomobil e Isetta. Il motore produce uno scoppiettio, un odore e un fumo azzurrognolo che la fanno sembrare uno scooter. All’interno offre un allestimento semplice ma da vera autovettura: un elementare sistema di ventilazione e riscaldamento, un quadro comandi essenziale; vanta un posacenere e un orologio incorporati nel cruscotto, con predisposizione per l’autoradio. Si diffonde in altri Paesi del blocco comunista e ha un moderato successo in alcuni Paesi occidentali.

Si consolida il mito Trabant

Nel 1964 nasce la Trabant che oggi ricordiamo di più, il modello 601. I suoi sviluppatori vengono puniti, perché l’hanno progettata senza l’autorizzazione della direzione. Saranno poi premiati, invece, perché la nuova vettura consegue un successo clamoroso: viene prodotta per 25 anni senza modifiche sostanziali. Ha linee più spigolose e moderne della P50, ma conserva il motore bicilindrico a due tempi, raffreddato ad aria e alimentato a miscela.

Al consolidarsi del mito Trabant contribuisce una caratteristica: nella sua semplicità, è un’auto che chiunque adatta alle proprie esigenze e ripara in autonomia, anche a causa delle difficoltà di reperimento dei ricambi. La marmitta, in particolare, si guasta spesso ed è introvabile. Nasce un circuito parallelo di componenti, adattamenti e riparazioni artigianali che ognuno svolge nel proprio garage. Nascono Trabant in versione campeggio, con una tenda montata sul tetto; Trabant in versione rally, modelli pick-up ed elaborazioni le più bizzarre, a fianco delle versioni standard, disponibili anche come station wagon e furgonato.

Attese di una vita e… sviste di produzione

Nei Paesi dell’Est, sin dagli anni Settanta ricevere un’automobile nuova richiede attese lunghissime. Per una Trabant può accadere di attendere quindici o sedici anni. Ci sono coppie che ordinano l’auto alla nascita del figlio, per avere la certezza che la riceverà entro l’età della patente. Per la stessa ragione, in quegli anni un’auto usata costa più di una nuova, perché è in pronta consegna.

Le difficoltà di produzione sono legate agli approvvigionamenti insufficienti e al cronico problema dei Paesi a economia pianificata: «Mancava la motivazione» – ricorda l’ingegner Klaus Popp, che sui suoi anni come capo del controllo qualità Trabant ha scritto un libro, La mia vita per e con la Trabant. Un sistema di premi sul salario, introdotto per incentivare la qualità, produce più polemiche che risultati. «Un giorno consegnammo una vettura sulle cui ruote c’erano due valvole per gonfiare le gomme, anziché una. Com’era potuto succedere?» Popp obbliga il caporeparto ad andare di persona dal cliente per sostituire le ruote difettose, ma deve faticare, per individuare le cause del problema, dovuto alla disattenzione degli addetti.

Nel 1966 viene ideato un nuovo modello, la Trabant 603, con motore rotativo Wankel e linea a due volumi. Non entrerà mai in produzione.

La storia finisce, il mito non muore

La storia della Trabant termina il 30 aprile 1991, sei mesi dopo la riunificazione della Germania, a più di tre milioni di esemplari prodotti. Il lancio di un nuovo modello, con motore Volkswagen a quattro tempi, non ha successo: ora anche gli acquirenti dell’est vogliono le marche occidentali. Con la Germania est scompare anche la sua automobile. La Trabant diventa protagonista di un film, Go Trabi Go: cadute le frontiere, una famiglia della Germania est può finalmente andare in vacanza in Italia – con la Trabant.

Il mito Trabant non muore, anzi: la vetturetta diventa oggetto di culto anche in occidente. Sarebbe un errore, però, vederci una nostalgia politica. Migliaia di appassionati si ritrovano in raduni periodici, si scambiano ricordi e… pezzi di ricambio. Non era l’unica auto prodotta in Germania est, ma, con il suo scoppiettare, la Trabant è stata un pezzo di Storia e un capolavoro della necessità che aguzza l’ingegno.

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