Paura, repressione e inflazione alle stelle: ecco com'è cambiata la vita dei russi
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Tre anni. Tanti ne sono passati dall’invasione su larga scala dell’Ucraina. Il prezzo, in tutti i sensi, è stato pesantissimo per Kiev: dal 24 febbraio 2022 a oggi, riferisce fra gli altri il Moscow Times, la guerra di aggressione di Vladimir Putin ha provocato danni infrastrutturali per oltre 100 miliardi di dollari, mentre i morti fra i civili sono 11.973 (fra cui 622 bambini). Decine e decine di migliaia, per contro, le perdite fra i soldati.
E la Russia? Com’è cambiato, nel frattempo, il volto della Federazione? Anche Mosca, in molti modi, ha pagato un prezzo altissimo. In termini di vite umane, quelle dei soldati mandati al fronte senza troppi complimenti dalle autorità, ma anche pensando alla crescente repressione politico-sociale esercitata dal Cremlino. In mezzo, le sanzioni occidentali, il cui effetto si è fatto sentire (e non poco) fra i comuni cittadini.
Nessuno, con certezza, sa quanti soldati russi siano caduti in Ucraina. BBC e Mediazona hanno parlato di 95 mila morti. Ma la cifra, secondo gli esperti, potrebbe essere più alta. Il Moscow Times, al riguardo, cita una testimonianza di una donna di mezza età della Repubblica di Tuva, lungo il confine con la Mongolia: «Da quando è iniziata l’operazione militare speciale, non vivo più la mia vita, esisto e basta. Ho perso il mio unico figlio maschio in guerra. Ho ancora le mie figlie di cui prendermi cura, quindi devo continuare a vivere e andare a lavorare». Parole pesanti, a maggior ragione se pensiamo che la Repubblica di Tuva è lontana, lontanissima dal fronte. Molti figli di questa terra, tuttavia, sono stati strappati ai loro affetti e alla loro quotidianità con la (falsa) promessa di un domani migliore e di uno stipendio fisso. Ancora la donna: «Mio marito ha iniziato a bere molto dopo la morte di nostro figlio, ma ha smesso quando ho tentato di togliermi la vita. Ovviamente, non ho raccontato nulla di tutto questo alle persone che mi circondano. Semplicemente, piango spesso – in silenzio – quando non c’è nessuno».
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Le statistiche dicono che Tuva, all’interno della Federazione Russa, è la regione con il tasso di perdite più alto rispetto al totale di abitanti. «Ci sono molti funerali qui, c’è molto più alcol e ci sono comportamenti aggressivi da parte degli uomini» ribadisce la donna. «È così che le persone scelgono di esprimere il loro dolore e la loro insoddisfazione».
Viene da chiedersi, evidentemente, fino a quando la popolazione russa riuscirà a sopportare il peso di questa guerra. Mentre i funerali si accavallano, è interessante notare che il 78% degli intervistati, secondo un recente sondaggio del Levada Center, sostiene le forze armate. Cresce, tuttavia, anche il coro dei contrari all’invasione, attestatosi attorno al 15%. Un coro silenzioso, dal momento che nel discorso pubblico prevale il patriottismo. Così un militare russo, sempre al Moscow Times: «È diventato inappropriato esprimere negatività verso i simboli militari o nazionali, il che è bello».
Il discorso cambia, radicalmente anche, se a parlare sono i russi che la guerra in Ucraina l’hanno vista e combattuta. Sul campo. O nelle regioni occupate dall’esercito di Kiev. Nel Kursk, ad esempio, si stima che circa 3 mila persone vivano ancora nelle aree sotto il controllo dell’Ucraina. E le autorità russe starebbero facendo poco o nulla per supportare chi è rimasto indietro. «C’è un profondo e crescente risentimento verso le autorità» dice al Moscow Times una donna della regione. «Stiamo chiedendo che i nostri cari vengano portati via da lì. Ma non capiamo perché nessuno si stia sforzando di farlo».
Nel suo racconto, il Moscow Times si sofferma anche sulla Baschiria, altra Repubblica russa che ha pagato un prezzo altissimo: in Ucraina, sono morti 4.156 soldati figli di questa regione. Se a Ufa, la capitale, le strade sono tappezzate di poster e pubblicità che invitano i giovani ad arruolarsi, ovviamente per il bene della Russia, nei piccoli centri e nei villaggi la situazione è diametralmente opposta. «Un villaggio è come un mondo diverso rispetto alla città, le persone hanno i loro problemi e le loro preoccupazioni ma parlano ancora molto della guerra» spiega Altynay. «Le persone discutono di quanti autobus con bare hanno visto arrivare, parlano dei figli che sono stati uccisi o portati al fronte, ricordano come i soldati che tornavano per una licenza di breve durata violentassero le donne nei villaggi. Ci sono molte di queste storie». Storicamente, le maggiori opportunità di lavoro (e di reddito) in Baschiria erano (e sono) legate all’industria del gas e del petrolio. La promessa di 15.400 dollari alla firma di un contratto con l’esercito russo, per contro, sin dai primi giorni di guerra ha rappresentato un’alternativa allettante.
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La guerra, in Baschiria, ha innescato anche una forte repressione nei confronti della popolazione indigena, a immagine dell’arresto dell’attivista Fayil Alsynov e delle proteste scatenatesi in seguito, con un’ulteriore ondata di violenze e arresti da parte delle forze dell’ordine. La privazione di molte libertà, nella quotidianità dei russi, è diventata quasi routine. Nel tentativo di promuovere i cosiddetti «valori tradizionali», ad esempio, le autorità russe hanno intensificato la repressione della comunità LGBTQ+, dichiarandola «estremista» e, quindi, fuorilegge. Molti spazi dedicati alla comunità, nelle città russe, si sono visti costretti a chiudere o ad agire ancora di più nell’ombra. «Molte cose sono cambiate da quando è iniziata la guerra» racconta un membro della comunità LGBTQ+ di Mosca al Moscow Times. «Molti club, in particolare gay club e sex party, si sono nascosti ancora di più, o sono scomparsi del tutto».
Il quadro, evidentemente, è tutto fuorché roseo. Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Russia, fra gli altri, ha lanciato l’allarme sulla sorte degli oltre 2 mila prigionieri politici detenuti nel Paese: otto persone, l’anno scorso, sono morte in prigione mentre altre 120 sono in «imminente pericolo». Il quadro, dicevamo, non è roseo perché, riassumendo al massimo, l’espressione del dissenso o della critica da oramai tre anni si traduce automaticamente in repressione, appunto, e conseguenze gravi. E così, la paura di parlare apertamente della guerra, di criticarne i contenuti e le motivazioni, ha invaso l’intero spazio pubblico russo. È rimasto, come unico rifugio, la propria casa, in quello che a detta del Moscow Times è un tragico parallelismo con l’Unione Sovietica. «Molte persone sono diventate più chiuse da quando è iniziata la guerra; non puoi più parlare come facevi prima» spiega un uomo di mezza età della Repubblica di Tuva. «Prima della guerra, potevi chiacchierare con la persona seduta accanto a te in coda per un appuntamento in un ospedale locale, ma ora tutti rimangono in silenzio».
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La guerra, venendo all’economia, ha prosciugato e non poco le risorse del Cremlino. Il 2024, al riguardo, si è chiuso con il più grande deficit di bilancio dall’inizio dell’invasione. Gli analisti ritengono che Mosca abbia ancora margine per sostenere il suo sforzo bellico, almeno per tutto il 2025. Anche perché, inutile girarci attorno, quella russa si è trasformata in una vera e propria economia di guerra, con il 40% della spesa pubblica destinata ad armamenti e difesa. Una spesa monstre si è tradotta in un’inflazione galoppante: a dicembre, eravamo al 9,5% su base annua, con l’indice dei prodotti alimentari salito all’11,1% rispetto al 9,9% di novembre. Mettere assieme il pranzo con la cena, letteralmente, per molti russi è diventata un’impresa: basti pensare agli aumenti di prodotti come il burro. A Tuva, a crescere, sono stati anche i prezzi di componenti di ricambio per automobili e carburante.
Resta da capire, concludendo, se la via aperta da Donald Trump – certo non molto rassicurante, se vista con occhi europei – porterà presto alla fine della guerra, come peraltro promesso in campagna elettorale dallo stesso tycoon. Comunque vada, molti cittadini russi sono concordi nell’affermare che, anche se le armi dovessero finalmente tacere, poco o nulla cambierebbe circa la loro condizione. Di più, come si reinserirebbero migliaia e migliaia di soldati, in gran parte dei casi pescati direttamente dalle carceri per andare al fronte, una volta tornati a casa? «Spero che se si faranno negoziati di pace, che smetteranno di portare la nostra gente in guerra» chiosa la donna di Tuva. «Voglio che tutto questo finisca il prima possibile. Ma la mia vita, qui, non cambierà. Anzi, le cose possono solo peggiorare».