Perché il «Google russo» è in difficoltà?
È un motore di ricerca. Ma non solo. Di fatto, è parte integrante (e avvolgente) della quotidianità russa. Volendo farla breve, Yandex è un conglomerato di servizi online. Dai trasporti alla pubblicità, passando per l’e-commerce. L’offerta è davvero totale. E funziona(va) molto bene, ad immagine dei taxi simil-Uber presenti nelle maggiori città della Federazione.
Ribattezzato non senza qualche venatura polemica «il Google russo», Yandex in queste settimane sta vivendo giornate quantomeno complicate. La guerra, le sanzioni, ma soprattutto la censura hanno trasformato l’azienda. In profondità. La faccenda non è di poco conto, anzi: parliamo della più grande tech company del Paese e, di riflesso, del secondo motore di ricerca più importante in lingua russa. Con una fetta di mercato del 42% a stare stretti. È un’alternativa, uscendo dai confini di Mosca, a Google, Bing, Yahoo e Baidu volendo citare altri motori famosi.
La narrazione del Cremlino
Ma che cosa è successo, di preciso? Meglio, che cosa sta accadendo al fiore all’occhiello della tecnologia russa? Semplice: l’invasione dell’Ucraina e la conseguente stretta sull’informazione varata da Vladimir Putin hanno spinto Yandex a sposare la narrazione del Cremlino. Da una parte la censura vera e propria, dall’altra l’omissione fra i risultati di ricerca di pagine che contengono informazioni sul conflitto. Venendo a un piano più filosofico, la visione occidentale, innovativa e libera dell’azienda (comunque a centro di molte critiche in passato, proprio per le sue pratiche poco trasparenti) ha ceduto il passo di fronte alle crescenti pressioni governative.
Tradotto, gli utenti sono stati indirizzati ogni giorno di più verso fonti di proprietà statale. Nessun accenno alla guerra, insomma, ma largo a perifrasi come operazione militare speciale e al solito elenco di falsità: dalla denazificazione dell’Ucraina alla liberazione del Donbass. Yandex ha pure provveduto a rimuovere i podcast della BBC e di altri media occidentali dai suoi servizi streaming.
«Il Cremlino ha il controllo di Yandex perché ha il controllo dell’economia russa» ha sintetizzato una fonte interna anonima al Moscow Times. «Come azienda russa, devi seguire la legge russa». O, se preferite, accettare il compromesso (eufemismo).
Al suo interno, Yandex ha reagito. Diversi dirigenti si sono dimessi complici le sanzioni occidentali mentre il futuro economico dell’azienda, quotata in Borsa a New York e con addentellati nei Paesi Bassi, appare piuttosto cupo: investimenti e piani, banalmente, sono stati rivisti al ribasso.
Le azioni della società, a proposito di Borsa, sono state congelate. E Yandex, per forza di cose, rischia grosso: in ballo c’è una garanzia obbligazionaria di 1,25 miliardi di dollari che, qualora venisse chiamata alla cassa, l’azienda non potrebbe onorare.
Quella vendita mai avvenuta
Al centro delle polemiche, dallo scoppio della guerra, c’è soprattutto Yandex News. Accusato, dicevamo, di privilegiare troppo la narrazione del Cremlino. Ne ha parlato, fra gli altri, l’oppositore politico Alexei Navalny affermando, via Twitter, che è proprio Yandex, più della televisione, a giocare un ruolo chiave nella propaganda putiniana.
L’azienda da tempo vorrebbe sbarazzarsi di Yandex News tant’è che aveva offerto il servizio al rivale VKontakte. La vendita, però, è stata bloccata dal governo sebbene Yandex abbia negato interferenze statali nella trattativa.
Vorrebbe, soprattutto, smarcarsi dal patriottismo esagerato di Mosca. Che non ha mai visto di buon occhio determinate svolte alla Google di Yandex. Pensiamo ai progetti all’estero e alla forza lavoro impiegata, decisamente liberale. Il Cremlino, non a caso, nel 2019 si è assicurato due poltrone nel Consiglio di amministrazione e il diritto di veto, tramite un’apposita fondazione, su future decisioni. In particolare sul fronte della sicurezza.
Il problema principale, nell’immediato, sarà trattenere la forza lavoro. Che, appunto, è giovane e fortemente liberale. Dopo l’invasione, molti dei 18 mila dipendenti di Yandex sono scappati in Israele o in Armenia. La società ha già svelato i piani per «recuperarli», da un lato chiedendo al governo israeliano di trasferire 800 lavoratori e, dall’altro, cercando un ufficio a Yerevan. Si tratta, tuttavia, di palliativi. Perché il cuore delle attività rimane e rimarrà in Russia. Con tutte le conseguenze del caso per un’azienda che aveva contribuito all’occidentalizzazione del Paese. O almeno di una sua parte.