Perché il voto in Turchia è importante?
Per infiammare lo spirito patriottico dei suoi elettori, nel tentativo e nella speranza di recuperare terreno rispetto ai sondaggi, Recep Tayyip Erdogan si è servito addirittura dell’Anadolu. La prima portaerei di fabbricazione turca, proprio così, «spedita» lungo le coste del Bosforo in una sorta di tour promozionale per ricordare a tutti che, dal 2003, la Turchia ha solo un padre-padrone: Erdogan, appunto.
Eppure, mentre il Paese si prepara alle elezioni generali del 14 maggio, il presidente e leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, il famoso AKP, appare in bilico. Al punto che, per la prima volta dopo tanti, tantissimi anni, la sua retorica, il suo carisma e – in generale – i suoi gesti potrebbero anche non bastare per riconfermarsi. Sì, l’uomo che ha governato e governa la Turchia in maniera vieppiù autocratica e dittatoriale potrebbe, finalmente affermano i suoi detrattori, andare incontro a una sconfitta storica. I cui riflessi, va da sé, rischiano di spingersi anche oltre i confini nazionali.
Che cosa dicono i sondaggi
Le elezioni, come noto, si giocheranno sul filo del rasoio. Secondo la maggior parte dei sondaggi, Erdogan è in svantaggio. Di poco, ma appunto in svantaggio. Perdere, per il popolo turco, significherebbe riguadagnare diverse libertà perdute negli anni. Sulla scena internazionale, invece, esperti e analisti concordano nell’affermare che la Turchia inizierebbe a riallacciare e rinsaldare i suoi legami con l’Occidente, forte della sua presenza (e importanza) nella NATO. Quantomeno, ci sarebbe più chiarezza rispetto all’ambiguità attuale. A immagine dei rapporti di amore e odio con la Russia.
L’Economist, in un suo editoriale, ha sottolineato come la Turchia, fra pochi giorni, rappresenti un crocevia per molte altre nazioni autocratiche. Della serie: se il popolo voterà in un certo modo, dimostrerà al mondo che gli uomini forti possono essere battuti. Tramite il processo democratico, fra l’altro.
Erdogan ha guadagnato potere e consensi, in questo ventennio, erodendo con una sistematicità impressionante l’indipendenza e la capacità operativa delle istituzioni, per tacere degli oppositori. Oppositori che, con un’alleanza a sei e un piano iper-dettagliato, promettono un nuovo inizio per la Turchia. A partire dal ripristino dello Stato di diritto.
La questione economica
Fra i danni più evidenti collegabili a Erdogan, cifre alla mano, c’è una politica economica fra l’ambizioso e l’autolesionista. Il sultano, come è stato ribattezzato tempo fa l’attuale presidente, ha licenziato tre governatori della Banca centrale turca in due anni (alla faccia dell’indipendenza della Banca, fra l’altro). Non solo, ha nominato suo genero ministro delle Finanze e, ancora, piegato l’economia turca al suo volere. Il risultato? Una crescita interessante, accompagnata però da un’inflazione che, nel 2022, ha raggiunto addirittura l’86% per assestarsi oltre il 40% quest’anno. Il prezzo delle cipolle, semplici e utilissime cipolle, è aumentato di dieci volte dal 2021.
Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito Popolare Repubblicano e candidato dell’opposizione alla presidenza, ha proposto di ridare indipendenza alla Banca centrale e riportare l’inflazione entro confini normali. Una doppia mossa che, si suppone, potrebbe pure frenare l’emorragia in termini di investimenti esteri in Turchia.
Ma l’economia, leggiamo, è soltanto una parte dell’equazione. In gioco, il 14 maggio, c’è l’essenza stessa della democrazia, che Erdogan ha calpestato più e più volte: la magistratura al guinzaglio, i media imbavagliati, le modifiche costituzionali del 2017 che hanno indebolito e limitato il Parlamento, le false accuse di terrorismo promulgate da pubblici ministeri compiacenti. Il sindaco di Istanbul, addirittura, rischia il carcere e l’interdizione dalla politica.
L'eventuale «rinascita»
E poi, dicevamo, ci sarebbero i rapporti internazionali. A cominciare da quelli con Bruxelles, con la Turchia che – nominalmente – è o sarebbe ancora un candidato per entrare nell’Unione Europea. Kilicdaroglu, al riguardo, ha promesso che onorerà le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e che inizierà a rilasciare i prigionieri politici collezionati da Erdogan. Fronte NATO, è verosimile pensare che il veto finora sventolato alla Svezia verrebbe revocato mentre le relazioni con gli Stati Uniti – non proprio idilliaci visti i rapporti di Erdogan con Putin e la questione delle forze curde in Siria – migliorerebbero.
Secondo i più, per contro, sulla guerra in Ucraina un eventuale cambio non cambierebbe la sostanza delle cose. Ovvero, la Turchia continuerebbe a fornire droni all’Ucraina ma, allo stesso tempo, non si unirebbe all’Occidente nel sanzionare economicamente la Russia. Turisti e approvvigionamento energetico da Mosca, in questo senso, rappresenterebbero una rinuncia troppo grande.
Al di là di questi aspetti, un cambio al vertice sarebbe un segnale forte, fortissimo. E, chissà, anche una fonte di ispirazione. Secondo il gruppo di ricerca V-Dem, citato dall’Economist, oggi sono cinquantasei le nazioni classificate come autocrazie elettive. Erano quaranta alla fine della Guerra Fredda. Dicesi autocrazia elettiva, riportiamo da Wikipedia, un regime nel quale chi è eletto al potere non solo condiziona con il suo programma e comportamento l’indirizzo politico e sociale del Paese, ma esercita un diretto e oppressivo controllo e censura su tutte le libertà presenti (pensiero, parola, stampa, media, associazioni, religioni, ideali e appartenenze politiche) pur mantenendo in auge la possibilità di nuove «regolari» elezioni politiche e amministrative, compresi i referendum, nazionali o locali.
Il segreto per rovesciare un’autocrazia, come detto, potrebbe arrivare dalla Turchia. Capace, come mai prima d’ora, di costruire un’opposizione forte, abbastanza forte e compatta per sfidare – davvero – Erdogan. Cosa che, ad esempio, non ha saputo fare l’India anti-Modi, al potere con (appena) il 37% dei voti.