Perché, in queste ore, si parla (anche) di James Cameron
Senza James Cameron, chissà, oggi probabilmente non parleremmo del Titan. Perché sì, in un certo senso c'è (anche) il cineasta all'origine del turismo estremo. Quantomeno, di quello legato alle profondità degli oceani. E questo perché, banalmente, nel 1997 il regista canadese firmò il blockbuster per eccellenza: Titanic. È stato il successo, straordinario, della pellicola a riaccendere le luci sul transatlantico e sul suo destino. Alimentando la corsa, per alcuni folle, per vedere con i propri occhi il relitto più famoso del mondo, che giace a 3.810 metri di profondità.
A suo tempo, come emerge da un documentario sull'edizione del film in DVD, Cameron definì il naufragio del Titanico come «il naufragio per eccellenza, il Monte Everest dei naufragi». Di più, il regista spiegò di aver girato Titanic «perché volevo immergermi nel naufragio, non perché volevo particolarmente fare il film». Dichiarazioni, queste, tornate di strettissima attualità considerando quanto sta accadendo al batiscafo di OceanGate. L'interesse di lunga, lunghissima data di Cameron per il relitto del Titanic, fra l'altro, lo ha portato a effettuare oltre trenta immersioni nel luogo in cui riposa il transatlantico. Il suo approccio rigoroso alla sicurezza, anche pensando alla sua impresa nella fossa delle Marianne, negli anni ha sempre evitato il peggio. Tuttavia, in un'intervista al New York Times datata 2012, a proposito dell'esplorazione delle acque profonde disse: «Stai andando in uno dei posti più spietati della terra. Non è che puoi chiamare l'AAA per venire a prenderti». Per AAA si intende l'American Automobile Association, il corrispettivo del Touring Club Svizzero negli Stati Uniti.
Sollecitato a più riprese dai giornalisti di tutto il mondo in queste ore, mentre scriviamo queste righe Cameron non ha ancora commentato la scomparsa del Titan. Libération, nell'attesa, ha riproposto alcuni stralci di un'intervista in esclusiva concessa lo scorso dicembre, in occasione dell'uscita del sequel di Avatar. Queste le sue parole, ai confini del filosofico: «L'acqua, come sapete, è una metafora dell'inconscio. Ci si immerge nell'acqua proprio come ci si immerge nel proprio subconscio. Si entra nel mondo dei sogni. Si torna indietro nel proprio passato. Ci si ricollega alla parte non verbale della mente. Nel film, l'oceano è anche letterale, un equivalente dei nostri oceani. I Na'vi non sono alieni, sono una versione migliore di noi stessi. E gli uomini, nel film, sono i peggiori».
Allargando il campo, il regista ha sempre visto e interpretato il suo cinema e la narrazione scientifica a proposito delle profondità marine come un tutt'uno. «Penso che il filo conduttore sia la narrazione» aveva detto a tal proposito una decina di anni fa. «Penso che sia compito dell'esploratore andare ed essere al limite remoto dell'esperienza umana e poi tornare indietro e raccontare quella storia». Un amore, quello per gli oceani, nato quando il regista era ancora un ragazzino e, nell'Ontario, fantasticava sugli speciali di Jacques Cousteau.
Cameron, dicevamo, ha effettuato diverse immersioni in acque profonde dopo aver girato Titanic. Fra cui quella celeberrima nella fossa delle Marianne, a circa 11 mila metri di profondità. Un'immersione, quella, filmata grazie all'aiuto del National Geographic. Durante la quale il regista ha descritto, con sentimento e un certo timore, come la superficie fosse sparita praticamente subito alla vista non appena il batiscafo ha cominciato a scendere.