Perché la scelta di J.D. Vance può far paura agli alleati degli Stati Uniti
Quali sono i segnali che provengono dalla convention repubblicana di Milwaukee? E che cosa bisogna aspettarsi dagli ultimi discorsi, i più significativi, quelli del vicepresidente designato J. D. Vance e di Donald Trump? Secondo Marco Mariano, associato di Storia del Nord America all’Università di Torino, «la scelta di Vance come candidato alla vicepresidenza è importante perché può far ipotizzare le future linee politiche di un’eventuale seconda presidenza del tycoon. Il dato saliente dell’indicazione di Vance è una rottura rispetto al passato. Mentre la scelta di Mike Pence era stata pensata anche come un ponte verso l’area reaganiana del partito, e quindi verso la vecchia guardia repubblicana, con Vance si premia un candidato che, pur con un percorso anomalo, è giunto su posizioni ultraconservatrici. Non c’è più, sostanzialmente, la ricerca di un compromesso interno rispetto alle altre anime del partito; prevale, piuttosto, la volontà di accentuare, se non di estremizzare, le politiche sia interne sia internazionali».
Trump manifesta anche in modo plastico di essersi preso definitivamente tutto il partito. Un dato che secondo Mariano è «incontrovertibile, come dimostrano peraltro altri aspetti organizzativi e della gestione della macchina del partito: pensiamo, ad esempio, al ruolo di Lara Trump all’interno della convention. Ciò che rimane del partito repubblicano tradizionale è relegato a una posizione decisamente subordinata. E questo si può facilmente vedere anche attraverso gli indirizzi di politica economica attribuibili allo stesso Vance, accentuatamente populisti e nazional-populisti. Pure le linee di politica estera sembrano orientarsi, se non verso un nuovo isolazionismo, termine che resta comunque ambiguo, verso una ritirata dagli impegni internazionali e dal tradizionale internazionalismo del partito repubblicano».
Gli alleati europei e asiatici degli Stati Uniti attendono con una certa ansia i risultati delle presidenziali. E la dichiarazione di ieri di Trump su Taiwan - “dovrebbe pagarci le spese per la difesa” - è tanto indicativa quanto sconcertante. «Una vittoria di Trump dice ancora Marco Mariano al CdT - rende ipotizzabile un relativo disimpegno, il che non significa isolamento. Anche per questo dicevo prima che il termine isolazionismo è spesso fuorviante. Penso che probabilmente assisteremo a un nuovo tentativo di rinegoziare costi e benefici con gli alleati, già tentato da Trump, con un lessico spesso brutale e provocatorio, durante la sua presidenza. E tuttavia, è difficile capire fino a che punto arriva il gusto e il talento per la provocazione e quando, invece, inizia una vera e propria rottura rispetto a agli orientamenti tradizionali di politica estera statunitense. Certo, la preoccupazione è legittima, ancora di più per quanto riguarda gli aiuti all’Ucraina, sin qui digeriti abbastanza a fatica dai gruppi parlamentari repubblicani del Senato e della Camera dei Rappresentanti. La scelta di Vance come vice fa senz’altro pensare a una accentuazione degli orientamenti in qualche modo anti-internazionalisti. Chi dovrà preoccuparsi maggiormente saranno i Paesi più dipendenti dagli aiuti e dal sostegno statunitense».
Una vittoria repubblicana, insomma, cambierebbe molto, se non interamente lo scenario internazionale. Davvero Trump, dopo l’attentato di Butler, in Pennsylvania, ha la strada spianata per la Casa Bianca? «A questa domanda non è facile rispondere - dice Mariano - l’onda emotiva suscitata nell’immediatezza da ciò che è accaduto a Butler porta molti a pensare che ci sia stata una svolta e che Trump si sia avvantaggiato in modo significativo e permanente. In realtà, non tutti sono sicuri che sia così. Ci sono anche molti commentatori negli Stati Uniti che mettono in dubbio tutto questo e che sostengono invece come l’onda emotiva potrebbe in qualche modo esaurirsi presto. Insomma, l’attentato potrebbe anche non essere così determinante nello spostare consensi. Molto dipenderà dal modo in cui reagirà lo schieramento avversario, se cioè i democratici sapranno o meno uscire da una impasse preesistente e ulteriormente drammatizzata dal tentativo di uccidere Trump».
Convincere Biden a farsi da parte non sarà semplice. Lo stesso storico torinese parla di un «tormentato processo interno al partito democratico e ai suoi gruppi parlamentari. Certo, più passa il tempo e più diventa difficile una sostituzione in corsa - dice Mariano - secondo alcuni osservatori, la linea di Biden e della Casa Bianca sarebbe proprio questa: approfittare di un momento complicato per favorire il passare del tempo e rendere sempre più difficile l’emersione di una soluzione alternativa».
Dovremo quindi abituarci all’idea di un mondo in cui il “gendarme” americano della democrazia liberale faccia un passo indietro? «In realtà - spiega ancora il professor Mariano - se adottassimo una prospettiva di più lungo periodo, ci accorgeremmo che all’interno degli Stati Uniti la tensione tra una pulsione internazionalista, di intervento e di coinvolgimento negli affari internazionali da una parte, e di isolamento dall’altra, è continua. Mai risolta definitivamente. Sebbene in alcune fasi ci sia stata una connotazione molto netta. Ad esempio, durante la guerra fredda, quando l’internazionalismo aveva un consenso bipartisan abbastanza forte. Dopo la crisi Lehman Brothers e il crollo delle Borse del 2008, gli orientamenti non isolazionisti, ma assai più cauti e attenti a un disimpegno dalla scena internazionale, si sono rafforzati. Trump è stato forse più effetto che non causa di questa revisione, in qualche modo già presente con Barack Obama, anche se naturalmente con toni e linguaggi molto diversi, e proseguita con lo stesso Biden, come dimostra un episodio non marginale qual è stato il ritiro dall’Afghanistan».
Quella che Mariano chiama «revisione degli strumenti e, soprattutto, dei costi dell’internazionalismo americano» non va, comunque, legata unicamente alla presidenza di Donald Trump. «Trump è colui che l’ha articolata nel modo più netto e con un linguaggio più di rottura - conclude lo storico torinese - però è ormai patrimonio abbastanza condiviso dell’America degli ultimi dieci anni. È ipotizzabile che una seconda amministrazione Trump, più efficace e meno improvvisata della prima e con una minore attenzione al compromesso tra le diverse anime del partito repubblicano, possa portare a qualche scarto più brusco rispetto a quello che abbiamo visto in passato».