Perché l'Italia è uscita dalla Via della Seta cinese?
Sì, l'Italia è uscita dalla cosiddetta Belt and Road Initiative. La Nuova Via della Seta, come è stata ribattezzata, un progetto promosso dalla Cina e incentrato su investimenti importanti, spesso monstre, nelle infrastrutture a livello globale. Roma, così facendo, è diventata il primo, primissimo Paese a uscire dal progetto dopo che aveva guadagnato i riflettori, nazionali e internazionali, per essere stato il primo e unico Paese del G7 a esservi entrato. Nel 2019, per la precisione.
A darne la notizia, prima di tutti, è stato il Corriere della Sera. Il governo italiano avrebbe consegnato ai rappresentanti diplomatici cinesi una nota contenente la disdetta formale dell'accordo. Nota che, leggiamo, è stata consegnata tre giorni fa. La notizia, tuttavia, è stata diffusa soltanto oggi, mercoledì. Né il governo italiano né tantomeno quello cinese, mentre scriviamo queste righe, hanno parlato pubblicamente della vicenda. Roma, fra l'altro, contava semplicemente di non rinnovare l'accordo – che va riconfermato ogni quattro anni – per considerarsi fuori dal progetto. Stando al Corriere, tuttavia, la Cina avrebbe insistito proprio per ricevere una disdetta formale. Una disdetta, appunto, consegnata mercoledì. Senza far rumore, oseremmo dire con un certo imbarazzo.
La Belt and Road Initiative, annunciata dal presidente Xi Jinping nel 2013, è un ampio progetto che, tramite l'investimento di centinaia di miliardi di dollari in vari Paesi, mira da un lato a rafforzare le infrastrutture commerciali dei singoli Stati e del mondo e, dall'altro, a espandere a dismisura la sfera di influenza cinese. Il focus di questa iniziativa? L'Asia, l'Africa, ma anche l'Europa. E l'Italia, in fondo, non è stata la sola nazione del Vecchio Continente a subire il fascino del Dragone: citiamo la Serbia, con la linea ferroviaria fra Belgrado e Novi Sad alla cui costruzione hanno partecipato anche aziende cinesi, e per certi versi pure la Svizzera, visto che nell'aprile del 2019, in occasione dell'apertura a Pechino del vertice sulla Nuova Via della Seta, l'allora presidente della Confederazione Ueli Maurer aveva difeso il progetto. Affermando, fra le altre cose, che pur facendo chiaramente gli interessi della Cina l'iniziativa avrebbe aiutato «a collegare le culture e a migliorare la reciproca comprensione». Quasi tutti i governi occidentali, per contro, si sono opposti all'iniziativa. Ritenendola, come detto, un modo da parte di Pechino di aumentare la propria influenza economica e politica nel mondo.
L'Italia, in questo senso, decise di mediare o, meglio, di porsi come ponte fra Occidente e Cina. Della serie: proviamo ad approfittare delle possibilità, enormi, che offre il mercato cinese, pensò allora il governo Conte I, sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega. Concretamente, per contro, questo atteggiamento da parte di Roma si tradusse in una sorta di riverenza verso Pechino. Riverenza che preoccupò non poco l'Unione Europea e gli Stati Uniti. Ciononostante, nel marzo del 2019 l'Italia diventò il primo (e unico) Paese del G7 e dell'Europa occidentale, oltre al Portogallo, a firmare un memorandum d'intesa con i rappresentanti del governo cinese per l'ingresso nella Belt and Road. La firma, beh, fu molto criticata. In Italia e, va da sé, all'estero.
L'atteggiamento del governo italiano cambiò, in parte, con l'avvento del governo Conte II e con l'arrivo di Mario Draghi. La decisione di Giorgia Meloni di uscire, in via definitiva, dalla Via della Seta, in un certo senso, rappresenta una sorta di chiusura del cerchio. Roma, dunque, ha abbracciato la posizione delle altre potenze europee. Secondo cui il progetto cinese è sconveniente sia a livello economico sia, diciamo pure soprattutto, a livello politico.