Perché un pilota fa precipitare il suo aereo?
La rivelazione è firmata Wall Street Journal: il Boeing 737-800 della China Eastern, schiantatosi lo scorso 21 marzo con 123 passeggeri e 9 componenti dell’equipaggio, è stato fatto precipitare intenzionalmente. Chi sia stato, se uno dei piloti o addirittura un intruso, non si sa. Non ancora, perlomeno. L’attenzione, tuttavia, si starebbe concentrando sul comandante. Un altro caso di suicidio nei cieli? Sì, no, forse. Per capirne di più, ci siamo rivolti al Professor Andrea Castiello d’Antonio, specializzato in psicologia dell’aviazione.
Premesso che l’indagine sullo
schianto del China Eastern è lungi dall’essere conclusa, che cosa può spingere
un pilota a compiere un gesto estremo?
«Il pilota, così come ogni altro essere umano, nel corso
della sua vita è potenzialmente esposto a situazioni che possono turbare
l’equilibrio emotivo e tradursi in intenzioni e/o azioni di genere
autodistruttivo. Al di là di eventuali cause e condizioni esterne, sono state
rilevate e studiate le cause interne di disagio e disequilibrio mentale, cioè
quelle condizioni interiori che possono condurre uno stato di sofferenza
mentale così forte da indurre a gesti estremi. Situazioni che si verificano
generalmente in condizioni di parziale o totale isolamento sociale o, comunque, di percepito vuoto sociale: vale
a dire condizioni di vita in cui si è impossibilitati (o si percepisce di
esserlo) a parlare e a condividere con altri il proprio disagio. In ottica
molto generale si può affermare che mentre le condizioni di ansia e
apprensione, e le problematiche legate a disturbi nell’attenzione (deficit di
attenzione o ipervigilanza, per fare solo due esempi), non conducono la persona
a compiere gesti eclatanti, altre situazioni di disagio mentale possono portare
a mettere in atto intenzioni e decisioni infauste. Tra queste le problematiche
di dipendenza (non solo da sostanze) e, soprattutto, le questioni legate al
tono dell’umore depressivo e al persistere di disturbi post-traumatici».
A circa 40 secondi dallo schianto, il Boeing di China
Eastern aveva leggermente ripreso quota. Che cosa le suggerisce questo dato?
«Alcuni ritengono che nel caso in oggetto non si possa
parlare di un deliberato intento suicida da parte di chi era ai comandi
dell’aeromobile perché sembra che nel corso della fatale picchiata vi sia stato
il tentativo di evitare lo schianto. Ma se ciò fosse davvero accaduto, appare
plausibile che un essere umano, pur determinato a farla finita, preso dal
panico, a un dato momento della caduta possa aver avuto l’impulso di riprendere
i comandi dell’aereo e tentare di salvarsi la vita».
Perché questi piloti «devono»
togliersi la vita in volo, coinvolgendo quindi anche decine e decine di
persone, e non prediligono una soluzione più intima e privata? Perché, insomma,
rendere un suicidio – un fatto di per sé personale – per certi versi pubblico?
«Al di là del noto caso
Germanwings, vi sono stati diversi altri episodi (accertati) di suicidio
realizzati da piloti al comando sia di velivoli ultraleggeri e di aerei di
linea. Ad esempio, nel novembre 2013 un Embraer E190 delle Mozambique Airlines con 33 persone si
schiantò in Namibia: uno dei due piloti si era chiuso nel cockpit e aveva
deliberatamente modificato le impostazioni di volo fino a far picchiare l’aereo
verso il suolo. Il 9 febbraio del 1982 un DC-8 della Japan Airlines precipitò in mare poco prima di atterrare a Tokyo,
causando la morte di 24 persone e 150 feriti: in questo secondo caso la
commissione d’inchiesta accertò che il comandante aveva manovrato al fine di
far precipitare l’aereo in mare. Altri episodi sono invece rimasti incerti,
come nel caso del Boeing 777 della Malaysia
Airlines dato per disperso l’8 marzo 2014 dopo aver trasmesso una serie
di dati in modalità automatica dall’Oceano Indiano. Solo di recente, alla fine
del 2021, l’ingegnere aerospaziale Richard Godfrey ha dichiarato di aver individuato
il luogo in cui l’aereo è precipitato (in pieno Oceano, sotto oltre 4.000 metri
di acqua) e di ritenere che il crash sia stato deliberatamente operato dal
pilota ai comandi dell’aereo. Circa il fatto per molti versi incredibile e
certamente del tutto irrazionale per cui un pilota decide di togliersi la vita
stando ai comandi di un aeromobile in volo, si possono richiamare almeno due
fattori. Il primo risiede nella dinamica stessa dei processi depressivi che
rendono la persona in un certo senso incapsulata
e distaccata dal mondo, finendo con il portarla a non considerare gli
effetti che il suo gesto può avere (o avrà) su altri. Il secondo elemento è
collocato nel rapporto che il pilota ha con l’aereo e, in particolare, con la
cabina di pilotaggio, avvertita come la propria
casa, oppure vissuta in modo contraddittorio, come la fonte di tutti gli
stress e i problemi di vita. In alcuni casi si è ipotizzata la volontà di
distruggere – da parte del pilota suicida – ciò che era percepito come
l’ambiente coercitivo in cui si era costretti a vivere. Naturalmente,
meccanismi psicologici profondi di questo genere possono attivarsi in molte
persone collocate in differenti ambienti di lavoro e ruoli professionali, e non
soltanto nel mondo dell’aviazione civile».


Quali sono le valutazioni
psicologiche che vengono applicate dalle compagnie nel processo di selezione
dei piloti?
«È utile ricordare che la psicologia dell’aviazione nasce
proprio con la necessità di effettuare una corretta selezione dei piloti
(piloti militari ai tempi della Prima guerra mondiale, successivamente per il
volo di linea, commerciale). Ciò sta ad indicare che il tema della scelta del
pilota è emerso ormai più di un secolo fa come un tema centrale. La selezione
del pilota nell’ottica dell’accertamento dell’idoneità di quello che potremmo
definire fattore mentale si
differenzia tradizionalmente in due aree: la valutazione psicologica e la
valutazione psichiatrica. Anche se dall’esterno potrebbero apparire come due
aree che si sovrappongono con scarsa utilità, in realtà così non è, dato che
l’assessment delle qualità psicologiche e la diagnosi psichiatrica, pur essendo
limitrofe, tendono ad accertare dimensioni diverse, o simili dimensioni mentali
ma da punti di vista e con strumenti differenti.
Quindi?
«È l’integrazione di
questi due vertici che, se ben condotta, può garantire l’ottenimento di un
quadro globale e completo delle caratteristiche di personalità, del
funzionamento mentale e di comportamento del candidato pilota. Ma va
sottolineato che se, da un lato, la selezione iniziale, cioè la selezione di
ingresso, è da sempre condotta con grande attenzione, non lo stesso si può sempre
dire della selezione in itinere, cioè di quella vera e propria valutazione di
carattere non tecnico – le cosiddette non-technical
skills – che dovrebbe accompagnare la vita del pilota con cadenza regolare
così come avviene nel campo degli accertamenti dell’idoneità fisica. Comunque, a valle del crash
del volo Germanwings 9525
(l’aeromobile fu deliberatamente fatto schiantare dal co-pilota Andreas Lubitz
affetto da disturbi mentali, ndr) è stato emesso dall’UE, in accordo con la
normativa di riferimento EASA, il regolamento 2018/1042 (Commissione del 23
luglio 2018), concernente «l'introduzione di programmi di sostegno, della
valutazione psicologica dell'equipaggio di condotta, nonché di test sistematici
e casuali per il rilevamento di sostanze psicoattive al fine di garantire
l'idoneità medica dei membri degli equipaggi di condotta e di cabina». In base
a questa nuova regolamentazione la valutazione dei piloti, nelle dimensioni
squisitamente psicologiche, deve essere declinata al fine di accertare le abilità cognitive, i tratti della
personalità e le competenze sociali (in accordo con i principi di base della
gestione dell’equipaggio) e deve essere condotta o supervisionata da psicologi
esperti del mondo dell’aviazione e delle metodologie di assessment psicologico,
preferibilmente con esperienza di selezione del personale di volo».
Che cosa fanno, invece, le compagnie per
prevenire questo tipo di incidenti? E ancora: quali strumenti sono a
disposizione degli equipaggi per sopportare lo stress derivante dal mestiere?
«Le due grandi direttrici che le compagnie aeree mettono in
pratica nell’ottica – se vogliamo chiamarla così – della manutenzione delle capacità e delle
competenze dei piloti sono l’addestramento e l’aggiornamento, da un lato, e la
formazione dall’altro. Il primo punta a rendere competente professionalmente il
pilota, mentre la formazione è centrata sullo sviluppo delle qualità
soggettive, delle caratteristiche psicologiche che devono essere attivate nel
lavoro. Le attività di simulazione – a cui i piloti sono chiamati con
regolarità non solo in termini addestrativi ma anche in ottica valutativa –
rappresentano una sorta di area intermedia tra addestramento e formazione. In
questo campo è importante segnalare l’innovazione introdotta in base alle nuove direttive della EASA
European Authority for Aviation Safety sotto la denominazione di programma di
sostegno. Qui emergono concetti come assistenza psicologica (ad esempio, a coloro che sono coinvolti
in incidenti aerei e ai loro familiari), così come Peer Support, un programma di sostegno non punitivo indirizzato a
supportare gli equipaggi nel superare problematiche psicologiche e
psicosociali. Tale programma è caratterizzato da totale riservatezza ed è
basato sul principio del sostegno tra pari; ciò significa che sono dei colleghi
della persona in difficoltà i quali – preventivamente scelti e formati –
intervengono in ottica di aiuto, avvalendosi della supervisione di psicologi
qualificati. Ma questa è solo l’ultima innovazione nel settore: si deve ricordare
il forte impatto che ha avuto l’introduzione del Crew Resource Management (CRM), sviluppato a fine anni Settanta in
ambito NASA, e creato per dare una risposta formativa atta a prevenire le
catene di errori che sono alla base di numerosi aerei. Da quando è nata fino ad
oggi, questa tipologia di Human Factor
Training si è sviluppata ed è evoluta rapidamente, e oggi ci si riferisce
alla storia del CRM in termini
di generazioni, cioè di format
via via implementati».


Si può fare di più?
«Dal punto di vista globale
del monitoraggio delle condizioni psicologiche dei piloti è evidente che si
dovrebbe puntare ad attività cicliche e ricorsive di assessment and training,
condotte da figure professionali diverse e sufficientemente personalizzate in
base alle necessità. Non è certamente sufficiente basarsi sul regolare
controllo medico finalizzato al rilascio e alla conferma della licenza di volo;
in tale contesto ci si chiede per quali motivi i normali sistemi di gestione,
valutazione e sviluppo delle risorse umane realizzati nel mondo aziendale –
come quelli che ho descritto nel mio libro (Il
capitale umano, Hogrefe, Firenze, 2021, ndr) – non sono compiutamente
applicati ai piloti e al personale di volo, e perché per diventare comandante
non è prevista una valutazione psicologica in profondità sulle qualità di base
della persona e sulla sua capacità di leadership».
Quanto possono incidere le questioni
personali (debiti, delusioni d’amore, eccetera) e quelle della società (la
pandemia, ora la guerra in Ucraina) sulla psiche di un pilota?
«Talvolta si tende a pensare al pilota come a una sorta di
individuo dalle caratteristiche speciali, e una certa tradizione, diffusa
soprattutto tra i comandanti delle vecchie generazioni, ha contribuito a
diffondere o consolidare il mito del pilota
infallibile, super-esperto, che sa sempre e comunque cosa e come deve
fare. Ciò che è stato definito il machismo
di una certa tipologia di comandanti e primi ufficiali rappresenta una
grave minaccia alla sicurezza del volo, anche se per una serie di motivi – tra cui
il mutamento generale della società, di alcuni suoi valori e modelli di
riferimento – oggi si sono ridotti i margini di deriva verso questa
rappresentazione fantasiosa del pilota di linea. Se, dunque, il pilota è un
essere umano come gli altri, proprio come gli altri potrà essere influenzato da
situazioni personali, familiari e sociali di stampo problematico o negativo.
Naturalmente ogni persona, pur soggetta a preoccupazioni anche rilevanti,
possiede la sua specifica capacità di delimitarne l’impatto, cioè di limitarne
l’interferenza nel momento in cui svolge l’attività professionale a cui è
destinata. Come è stato messo in rilievo anche in altri comparti come le forze
armate, gravi preoccupazioni economiche e pesanti problematiche di vita di
coppia o familiare possono condurre la persona compiere anche gesti estremi.
Una chiave di comprensione in merito a tali episodi – che quindi possono
coinvolgere anche i piloti – sta nell’incrinatura della propria auto-stima,
nella difficoltà nel mantenere l’immagine sociale agli occhi esterni, e nella
percepita impossibilità di ricevere comprensione a fronte di situazioni che il
soggetto ritiene essersi manifestate per propria grave colpa. Da tale punto di
vista, il far parte di istituzioni e organizzazioni che sono percepite
socialmente come prestigiose e di rilevante importanza tende purtroppo a
bloccare la persona che si trova in condizioni di disagio psicologico nella
richiesta di aiuto e supporto».
Ma pandemia e guerra, nello specifico, hanno avuto e hanno
un ruolo?
«A livello sociale, si è visto come la pandemia e, oggi, la
guerra possano rappresentare dei veri e propri detonatori di equilibri mentali
non del tutto positivamente consolidati, inducendo soprattutto stati di ansietà
e di apprensione diffusa lì ove, precedentemente, la vita di lavoro scorreva
tranquilla (o apparentemente tranquilla). Non va trascurato che anche i piloti,
e il personale di volo in generale, può soffrire di diverse forme di angoscia,
tra cui l’aerofobia, cioè
l’ansia di volare, una sindrome molto diffusa nella popolazione che può
emergere improvvisamente nel corso della vita e che andrebbe trattata tempestivamente,
come ho sottolineato nel mio altro libro (La
paura di volare, Franco Angeli, Milano, 2011, ndr)».

