Esito incerto

Presidenziali, due mesi al voto: gli Stati Uniti cercano un leader

La media dei sondaggi, aggiornata quotidianamente, conferma il testa a testa tra Kamala Harris e Donald Trump – La vicepresidente è avanti nel Midwest mentre il suo sfidante sembra prevalere nella «Sun Belt» – Enorme l'attesa per il dibattito televisivo di martedì prossimo
©CJ GUNTHER
Dario Campione
05.09.2024 06:00

Due mesi. Sessanta giorni. La campagna elettorale per le presidenziali negli Stati Uniti imbocca l’ultimo rettilineo. In attesa di una sterzata che potrebbe arrivare, martedì prossimo, dopo l’attesissimo dibattito Tv tra Donald Trump e Kamala Harris. Sessanta giorni al 5 novembre, l’election day, e allo spoglio delle urne. Il passaggio chiave che terrà centinaia di milioni di persone incollate agli schermi Tv per conoscere il nome di chi occuperà lo Studio ovale nei quattro anni a venire. Sessanta giorni. Che per molti americani saranno anche meno: in numerosi Stati, infatti, sarà possibile cominciare a votare per corrispondenza già nel mese di ottobre.

Gli Swing States

Dopo l’addio di Joe Biden e l’irruzione sulla scena di Kamala Harris, la partita tra i candidati dei due maggiori partiti è stata letteralmente stravolta. La facile e annunciata vittoria di Trump si è via via trasformata in una corsa a ostacoli (sempre più alti). Nessuno, al momento, è più in grado di fare un pronostico certo sull’esito delle elezioni. Anzi, non sono pochi i commentatori che parlano apertamente della sfida come dell’equivalente «di una lotta con il coltello in una cabina telefonica».

Nei sette Stati in bilico, i cosiddetti Swing States, decisivi per la vittoria finale - Michigan, Pennsylvania, Wisconsin, Arizona, Georgia, Nevada e North Carolina - i sondaggisti hanno registrato nelle ultime tre settimane una chiara inversione di tendenza a favore della vicepresidente. Un deciso cambio di direzione, sopratutto dopo la convention dem di Chicago, ma non ancora sufficiente per rassicurare i democratici sul risultato.

In questo momento, secondo le medie pubblicate quotidianamente dai principali mezzi d’informazione statunitensi, Kamala Harris è in vantaggio su Donald Trump negli Stati del Blue Wall, il muro operaio delle tute blu (Michigan, Pennsylvania e Wisconsin). Un vantaggio minimo, però, inferiore al margine di errore del 3,5% considerato statisticamente significativo. Soltanto nel Wisconsin la media dei sondaggi accredita alla Harris un vantaggio sull’avversario superiore ai 3 punti.

In altri tre Stati - Arizona, Georgia e Nevada - i risultati dei sondaggi sono così ravvicinati che le medie pubblicate da quotidiani, siti Internet e canali Tv non riescono a individuare con certezza chi dei due contendenti sia davanti. Soltanto in North Carolina, Stato in cui «Trump ha vinto sia nel 2016 sia nel 2020, l’ex presidente è in testa in tutte e tre le medie nazionali, anche se soltanto di un punto» ha scritto Politico.

«I tre Stati del Midwest in cui Kamala Harris ha un modesto vantaggio sarebbero sufficienti per ottenere la presidenza», sottolineano dal canto loro gli analisti del Washington Post. Ma le incognite della campagna elettorale sono ancora molte. Certo è che «lo slancio, per ora, sembra essere con la vicepresidente», la quale si è rivelata molto più «popolare» di quanto nessuno avesse mai potuto o voluto immaginare. «Le persone sono naturalmente motivate a votare contro qualcuno. Ma quando sono altrettanto o più motivati a votare per qualcuno, allora scatta un meccanismo potentissimo», ha detto al New York Times David Plouffe, consulente senior della campagna di Kamala Harris.

Economia determinante

Uno dei fattori che potrebbero maggiormente influenzare i sondaggi, anche al di là dei singoli candidati, è l’andamento dell’economia. La questione più sentita dagli elettori americani. «Se diamo un’occhiata a come l’economia ha influenzato le precedenti elezioni - ha scritto tre giorni fa il team di analisti che monitora la campagna presidenziale per il Washington Post - possiamo vedere che quando essa migliora, il candidato del partito in carica fa meglio. Se l’economia peggiora, allora lo sfidante ha un vantaggio. In questo momento stiamo esaminando in particolare due fattori: il sentimento dei consumatori, o quanto le persone si sentono ottimiste riguardo all’economia, e la crescita del prodotto interno lordo pro capite (o tasso di crescita). Se l’economia migliorerà prima del giorno delle elezioni, stimiamo che Kamala Harris potrebbe finire in testa nei sondaggi nazionali con una media di 5 punti».

Non sono quindi casuali le scelte compiute dal ticket democratico durante il «Labor Day», lunedì scorso: comizi nelle grandi fabbriche e tra gli operai sindacalizzati del Midwest, ma anche continue rassicurazioni su una legge che protegga il potere d’acquisto della classe media. 

Una montagna di denaro

Il voto di novembre, così come sempre accade, non riguarderà soltanto la Casa Bianca ma anche il rinnovo della Camera dei Rappresentanti (oggi a maggioranza repubblicana) e, parzialmente, del Senato, controllato in questo momento, per due soli seggi, dai democratici. Un presidente costretto a coabitare con un Parlamento di segno opposto è considerato una lame duck, un’anatra zoppa. Anche per questo, Kamala Harris ha annunciato l’altroieri di voler destinare 25 milioni di dollari alla campagna elettorale per il Campidoglio.

Una decisione che ha letteralmente gettato nel panico i repubblicani, alle prese con un calo vistoso dei finanziamenti per i propri candidati.

Su questo versante, l’ingresso nella competizione per la Casa Bianca di Kamala Harris ha prodotto un gigantesco rimescolamento delle carte. In un solo mese, la vicepresidente ha ricevuto donazioni per 540 milioni di dollari, 82 dei quali nei soli quattro giorni della convention di Chicago. «Harris sta nuotando nei contanti», ha scritto martedì il New York Times, sottolineando la capacità della vice di Biden di rimotivare non soltanto il popolo democratico, ma anche i grandi contributori della campagna elettorale.

Kamala Harris prenderà quindi da questa montagna di denaro 10 milioni per ciascuno dei «bracci» del partito democratico impegnato nella corsa a Camera e Senato, altri 2,5 milioni di dollari saranno versati all’organismo che aiuta a eleggere i rappresentanti dem nei Parlamenti statali, mentre un milione andrà alla Democratic Governors Association e alle campagne elettorali dei procuratori generali. A dimostrazione, ancora una volta, del fatto che in America le elezioni si vincono anche e soprattutto con i soldi.