Prove di pace tra Erevan e Baku, con il pressing di Putin
La paura e l'incertezza per il futuro, accompagnate alle ristrettezze per il blocco dei rifornimenti essenziali, continuano ad attanagliare i 120.000 armeni del Nagorno-Karabakh anche il giorno dopo il cessate il fuoco che ha messo fine all'attacco dell'Azerbaigian. E intanto il primo ministro armeno Nikol Pashinian, sotto l'assedio dei manifestanti e delle opposizioni che ne chiedono le dimissioni, imputa quanto successo a quelli che denuncia come i «fallimenti» dei peacekeeper russi.
La fragile tregua per il momento regge, a parte cinque isolate violazioni segnalate dai militari di Mosca dispiegati nella regione. Ma tre ore di colloqui tenuti nella città azera di Yevlakh tra i rappresentanti dell'enclave armena e gli inviati del governo di Baku non hanno portato ancora a risultati concreti, e le parti hanno convenuto di rivedersi presto. Sul tavolo, sottolinea l'Azerbaigian, sono le misure per una «reintegrazione» nel suo territorio della regione, e quindi per mettere fine alla Repubblica di Artsakh, come gli indipendentisti armeni chiamano il Nagorno-Karabakh. Ma finché non ci sarà «un accordo finale» che dia adeguate garanzie di sicurezza ai residenti armeni, le milizie locali non deporranno le armi come previsto dall'intesa di ieri, ha detto all'agenzia Reuters David Babayan, consigliere del leader separatista Samvel Shahramanyan.
L'ambasciatore armeno presso l'Ue, Tigran Balayan, ha detto all'ANSA che nell'enclave «è in corso una pulizia etnica a tutto campo» e «quello che sta accadendo davanti ai nostri occhi è la Srebrenica del ventunesimo secolo». Tuttavia il premier Pashinian ha affermato che «non c'è una minaccia immediata alla popolazione civile», anche se Erevan è pronta, se necessario, ad accogliere «40.000 famiglie» dalla regione. Degli oltre 3.000 residenti che ieri avevano preso rifugio presso i militari russi, oggi ne rimanevano 1.340, di cui poco più di 600 bambini. «Ma il problema è il blocco del corridoio di Lachin», ha aggiunto il premier, cioè dell'unica via di comunicazione tra l'Armenia e il Karabakh attraverso la quale passano i rifornimenti.
Il presidente russo Vladimir Putin, che ieri sera aveva parlato al telefono con il premier armeno, ha avuto oggi una conversazione con il presidente azero Ilham Aliyev, al quale ha chiesto che Baku garantisca «i diritti e la sicurezza degli armeni del Nagorno-Karabakh». Durante la telefonata Aliyev ha anche presentato le sue scuse ammettendo la responsabilità delle truppe azere per due oscuri episodi che ieri hanno visto sei peacekeeper russi venire uccisi dal fuoco di armi leggere mentre rientravano in auto da una missione di osservazione.
Mosca ha fatto sapere che i due presidenti hanno anche convenuto di intensificare le trattative per un trattato di pace tra Azerbaigian e Armenia. «Dal momento che il problema principale dell'affiliazione territoriale del Karabakh è stato risolto, possiamo dire che è stato fatto un progresso sostanziale», ha notato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Ma Pashinian, sotto attacco nel suo Paese con l'accusa di non avere saputo difendere gli armeni dell'enclave, non sembra certo di poter sostenere apertamente il processo di pace, almeno per ora.
Il primo ministro armeno ha preso le distanze anche dall'accordo di cessate il fuoco, sottolineando che Erevan non ha partecipato alle trattative mediate dai russi. «Non siamo tra i firmatari di questo documento», ha affermato in un discorso alla nazione. Per poi puntare il dito contro Mosca, la tradizionale alleata con la quale i rapporti si sono raffreddati negli ultimi tempi. «Se i peacekeeper russi hanno potuto raggiungere un accordo per il cessate il fuoco, perché non lo hanno fatto prima che l'Azerbaigian attaccasse il Nagorno-Karabakh?», ha chiesto Pashinian, sottolineando di avere da tempo lanciato l'allarme per una concentrazione di truppe di Baku ai confini della regione.