Putin e l'annessione di quattro regioni: che cosa succede ora?
E adesso? L’annessione russa delle quattro regioni dell’Ucraina parzialmente occupate in questi sette mesi e oltre di guerra, beh, apre a scenari nuovi. E, va da sé, inquietanti. L’inclusione formale di Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson, agli occhi del Cremlino, ha quale primissimo scopo l’irreversibilità delle conquiste militari. I referendum farsa, in questo senso, hanno dato a Mosca il pretesto politico per russificare un territorio straniero.
La firma dei trattati
Vladimir Putin, il presidente russo, ha preso parte alla firma dei trattati di adesione. L’evento si è svolto nel Salone di San Giorgio, una sala tanto sontuosa quanto sfarzosa. «Ora ci sono quattro nuove regioni – ha spiegato lo zar – e i loro abitanti diventeranno per sempre cittadini russi. Difenderemo la nostra terra con tutti i mezzi a disposizione». Un ammonimento, chiaro e netto. Secondo gli analisti, l’annessione è stata dettata, come la mobilitazione parziale, dalla paura. Ora, anche i nuovi «cittadini» sono imprigionati e, di fatto, papabili di chiamata alle armi.
L'utilizzo delle armi nucleari
Con quattro nuove regioni annesse, Putin può rilanciare la narrazione attorno all’utilizzo delle armi nucleari contro la NATO e, ancora, contro chiunque aiuti militarmente l’esercito ucraino. Esercito ucraino che, stando a Mosca, tecnicamente adesso starebbe «occupando» porzioni di Russia. Il leader del Cremlino, non a caso, ha più volte ricordato che anche in epoca sovietica l’atomica rappresentava una possibilità qualora fosse stato minacciato, citiamo, il territorio nazionale. Risultati dei referendum farsa alla mano, le terre ucraine sono state liberate e trasformate in regioni russe. Di qui la necessità, secondo Mosca, di difenderle con ogni mezzo. Anche con il nucleare.
Un gesto disperato
Nelle intenzioni iniziali di Putin, questo passo avrebbe dovuto giustificare, legalmente, l’invasione militare e, di riflesso, l’annessione delle regioni ucraine occupate. Il culmine della cosiddetta operazione militare speciale, voluta per difendere la popolazione filorussa dalla «giunta neonazista» di Kiev. A conti fatti, però, il timing con cui sono stati annunciati questi referendum mettono a nudo il fallimento dell’intera campagna lanciata a fine febbraio. Un gesto carico di paura e disperato, dicevamo, in risposta alla crescente superiorità politica e militare dell’Ucraina, sempre più sostenuta dall’Occidente.
Il precedente in Crimea
L’idea di uno o più referendum circolava dallo scorso maggio, sin dalla presa di Mariupol da parte delle truppe russe. Un referendum simile si era tenuto nel marzo del 2014, in Crimea. Come oggi, anche allora la comunità internazionale parlò subito di mossa illegale. Otto anni fa, il 97% dei cittadini della penisola si disse favorevole all’annessione alla Russia. Tuttavia, mancò una supervisione internazionale imparziale e, di nuovo, il dato non venne ritenuto credibile dalle Nazioni Unite.
Rispetto ai disegni originari, la resistenza ucraina ha letteralmente sconvolto i piani di invasione di Putin. Tramontata l’idea di prendere subito Kiev, i russi hanno incontrato non poche difficoltà anche nel Donbass e nella regione di Kherson, dove ad agosto si sarebbe dovuto tenere un primo referendum (poi rinviato a settembre). Il successo dell’offensiva ucraina tra Kharkiv e Izyum, una volta ancora, ha messo a nudo i limiti della macchina da combattimento del Cremlino. Al punto da costringere Putin ad annunciare una mobilitazione parziale invero piuttosto sconclusionata.