«Qatar 2022? Tra gli esempi più eclatanti di greenwashing»
La COP27 si è conclusa domenica, con un accordo che sa di resa e che, soprattutto, preoccupa per quanto concerne la corsa contro il tempo rispetto al riscaldamento globale. Di passi avanti veri e propri, decisivi diciamo, non ne sono stati compiuti. E allora, anche sfruttando la vetrina (e le polemiche) di Qatar 2022, il Mondiale di calcio più discusso di sempre, è lecito chiedersi: a che cosa stiamo andando incontro, nel medio-lungo periodo? Che mondo lasceremo ai nostri figli e nipoti? Perché insomma, sembra che ci limitiamo a vivere il presente come ha scritto Paolo Galli in un suo editoriale? Ne abbiamo parlato con Antonio Nucci, dottorando in comunicazione del cambiamento climatico presso l’Università della Svizzera italiana.
A livello comunicativo,
nemmeno i leader presenti alla COP27 erano concordi sul definire questa
ennesima conferenza sui cambiamenti climatici un successo o meno: qual è, a
grandi linee, il bilancio del vertice in Egitto? La delegazione svizzera, ad
esempio, non ha nascosto una certa delusione mentre i discorsi attorno al
concetto di loss and damage hanno nascosto una delle problematiche più
grandi, ovvero il mancato intervento sulle energie fossili.
«Ad oggi è difficile dire,
in maniera assoluta, se il bilancio sia negativo o positivo, ma sicuramente ci
troviamo ancora in quella posizione in cui molto viene detto e poco viene
fatto. Il loss and damage, il fondo destinato ai Paesi colpiti più duramente
dalla crisi climatica, è sicuramente un passo avanti, ma la delegazione
svizzera ha pienamente ragione: è troppo poco. Questa, inoltre, avrebbe dovuto essere
la COP dell’Africa, uno dei continenti che soffre di più gli impatti della
crisi, nonostante non ne quasi per nulla responsabile».
Riallacciandoci alla prima
domanda, è corretto affermare che queste mega-riunioni non hanno più senso o,
meglio, sono oramai superate dagli eventi? Gli
attivisti climatici, per dire, da tempo sottolineano il fatto che le COP si
accumulano ma poco o nulla viene fatto, nel concreto, per ridurre le emissioni.
«Gli attivisti giustamente
esprimono le perplessità di chi si troverà a convivere con le conseguenze di
questa crisi e, un po’ come Cassandra, si uniscono al coro di accademici e
scienziati che chiedono azioni immediate. Si tratta della ventisettesima
edizione della COP e ancora ci troviamo a dire che quello che è stato
concordato non è sufficiente. La voce degli attivisti inoltre sta assumendo un
ruolo sempre più marginale in questi eventi a favore di quella di lobbisti o
sponsor, come Coca-Cola che ha sponsorizzato la COP27».
Aziende, governi e
organizzazioni sembrano ricorrere sempre più spesso al cosiddetto greenwashing:
mentre si discuteva in Egitto, in Qatar è cominciato il Mondiale meno
sostenibile di sempre. Qual è la posizione di Doha sui cambiamenti climatici?
«Questi Mondiali sono tra
gli esempi più eclatanti di greenwashing. La FIFA aveva assicurato che
l’impronta sarebbe stata portata a net zero prima ancora dell’inizio del Campionato.
Tralasciando che questo tipo di calcolo può essere fatto solo dopo la
conclusione dell’evento. Ma basti pensare all’esempio più banale: gli stadi.
L’impronta ecologica della costruzione di otto stadi nuovi, gli impianti di
irrigazione per mantenere il manto erboso adatto a un Mondiale di calcio,
l’aria condizionata per contrastare il caldo della penisola arabica, sono solo
alcuni degli elementi che fanno capire il costo ecologico di questi Mondiali.
Il Qatar è del resto una nazione che deve la sua ricchezza ai combustibili
fossili…».
La COP27, inevitabilmente,
è legata anche alla guerra in Ucraina. Quanto e in che modo gli eventi bellici
hanno rallentato la lotta al cambiamento climatico? Immaginiamo che i fondi
destinati a programmi pro-clima di alcuni governi siano stati spostati per
sostenere Kiev, volendo fare un esempio banale.
«L’Occidente, e in
particolar modo l’Europa, con questa guerra sta raggiungendo la consapevolezza
che la dipendenza energetica dalla Russia è un guinzaglio non da sottovalutare.
Di più, il sistema attorno al quale funziona il mercato dell’energia, presso la
borsa di Amsterdam, segue regole proprie che, evidentemente, devono essere
migliorate. Le famiglie e le aziende che, da un mese all’altro, hanno visto i
loro costi di consumo aumentare esponenzialmente, sono quelle che pagano questa
dipendenza energetica. Gli interventi diretti degli Stati, come il fondo da 200
miliardi di euro proposto in Germania, sono stati vitali per alcuni soggetti,
ma non possono essere una soluzione permanente. Una soluzione potrebbe essere
investire seriamente sulle rinnovabili».
Allo stesso modo, negli
Stati Uniti è appena cambiato l’equilibrio politico del Congresso. Detto che
potrebbe essere un problema per il sostegno all’Ucraina, quanto potrebbe
frenare le politiche climatiche dell’amministrazione Biden una Camera in mani
repubblicane?
«Negli Stati Uniti, più
che in altri Paesi, il tema della crisi climatica ha assunto aspetti
prettamente politici: una camera a maggioranza repubblicana remerà sicuramente
contro la presidenza democratica sulle politiche ambientali. È altrettanto vero
che le politiche proposte fino a questo momento dalla Casa Bianca hanno fatto
il «bare minimum», il minimo essenziale in termini climatici: gli Stati Uniti ancora
oggi sono il primo Paese in termini di emissioni».
Concludendo, con quali
sentimenti andiamo verso la COP28? Il famoso obiettivo del riscaldamento
globale contenuto a 1,5 gradi è oramai sfumato?
«È difficile pensare alla
prossima COP con ottimismo. Ci stiamo pericolosamente avvicinando a un punto di
non ritorno in cui, occorre ricordarlo, non è tanto l’ambiente a pagarne le
conseguenze, ma noi. La terra è resiliente, ma lo stesso non si può dire dei
nostri sistemi economici e sociali, che dovranno far fronte alle conseguenze
della crisi».