Quando la macchina di propaganda russa investe l’Occidente
Nella guerra ibrida che da giorni infuria in Ucraina non si sente solo il frastuono delle bombe o il sibilo dei proiettili, ma anche il forte rumore della propaganda russa. La strategia di disinformazione di Vladimir Putin cerca di far breccia in Occidente, passando dai media filogovernativi ai social. La consigliera federale Viola Amherd ha lanciato l’allarme: la propaganda russa dilaga anche in Svizzera, sui social network e sui blog dei siti dei quotidiani. I media internazionali stanno correndo ai ripari, smontando, passo dopo passo, le narrative distorte che arrivano dal fronte. E, in tutta questa confusione, i comuni utenti, che per anni hanno seguito partiti populisti europei apertamente schierati con Putin, fanno il gioco di Mosca. Oggi più che mai il lavoro dei media diventa fondamentale per mettere ordine nel mondo confuso dell’informazione ai tempi della guerra. Ne parliamo con Philip Di Salvo, ricercatore post-doc presso l’Istituto di media e giornalismo dell’USI attualmente Visiting Fellow alla London School of Economics and Political Science e autore dei libri «Leaks. Whistleblowing e hacking nell’età senza segreti» (LUISS University Press, Rome, 2019) e «Digital Whistleblowing Platforms in Journalism. Encrypting Leaks» (Palgrave Macmillan, London, 2020).
La guerra in Ucraina ha una forte componente di propaganda e disinformazione. Da osservatore, come valuti queste dinamiche?
«Il conflitto in Ucraina offre numerosi spunti dal punto di vista mediatico, giornalistico e, nel complesso, della disinformazione. Questo perché l’aggressore, la Russia, è da sempre uno dei più potenti attori per quanto riguarda la propaganda e l’uso strumentale dell’informazione. Quando si parla di Russia non si può non citare il suo arsenale informativo e di propaganda che, guarda caso, anche in questa guerra di aggressione, è stato sfoderato al massimo della potenza. Sicuramente è molto interessante vedere, da un lato, come si sviluppano queste dinamiche e, dall’altro, osservare come l’Ucraina e l’Occidente stiano rispondendo a questo tentativo di inquinamento di informazione tipico delle strategie di Putin».
Come sta rispondendo l’Occidente alla propaganda di Putin, tra media tradizionali e social?
«Innanzitutto occorre fare delle distinzioni. C’è la propaganda vera e propria, che viene “sparata” dagli organi di informazione controllati direttamente da Mosca. Poi c’è la classica nube di confusione che si viene a generare nei contesti di breaking news, come quello degli ultimi giorni. Detto questo, osservando i media internazionali, in particolare quelli italiani che per motivi linguistici seguo più da vicino, mi sembra che rispetto ad altre situazioni complesse e confuse stia andando un po’ meglio. Spesso in queste circostanze era molto frequente vedere errori giornalistici abbastanza clamorosi: contenuti dei social ripresi senza attenzione, video messi in rete da account dubbi che in realtà riguardavano tutt’altro, ripresi sulle homepage come se fossero effettivamente genuini. Questo ovviamente succede non necessariamente per mala fede, ma per errori veri e propri, anche imbarazzanti, se si pensa che siamo nel 2022 e la verifica dei contenuti social dovrebbe essere l’abc della vita di redazione. Dal mio punto di vista, assolutamente parziale e riferito alla mia esperienza di lettore in questi giorni, mi sembra ci siano stati dei passi avanti. Invece vedo ancor più amplificata la moltiplicazione delle fonti sui social media. Con una maggior vicinanza del conflitto, rispetto ad esempio ad altri scenari di guerra, come quello recente in Afghanistan, si sono moltiplicate le voci, circolano più contenuti online e anche qui, senza aver fatto nessuna ricerca empirica, ma basandomi sulla mia esperienza personale, ho visto un’amplificazione di questa confusione. Anche i ruoli di chi fa informazione mi sembrano diventati più confusi, vedo in molti colleghi e colleghe un’attitudine più da influencer che da giornalisti. Mi sembra che alcuni piani della comunicazione digitale siano meno chiari che in passato e in alcuni casi appaiono persino ribaltati. Questo è evidente soprattutto su Instagram, dove si alternano storie assolutamente private e quotidiane a video di bombardamenti a Kharkiv. Io sono convinto che i social abbiano aiutato il giornalismo in molti modi, ma che ne abbiano pure complicato la vita. Nel complesso il mio giudizio è più che positivo, però vedo accentuarsi anche un’attitudine culturale del tipo “timbrare il cartellino” sul fatto del giorno, con l’assenza poi di una riflessione su quale sia il valore del contributo che si porta all’interno nella complessità di un conflitto come quello in Ucraina. Vedo alcuni piani sovrapporsi: l’informazione, l’attivismo digitale, il self-branding e l’autoesposizione. In molti casi questo crea più rumore che effettivo contributo informativo. Poi c’è tutto il tema di come le piattaforme social possano essere utilizzate per fare propaganda di guerra. In questo senso, si sa da anni ormai, la Russia è particolarmente attiva: ha organizzato numerose campagne di propaganda e di disturbo dell’informazione all’estero. Chiaramente in relazione all’Ucraina questo si è amplificato in maniera esponenziale. Non è iniziato di certo questa settimana, ma ha accompagnato tutte le fasi di tensione che hanno portato alle bombe e all’invasione. La Russia ha un apparato potentissimo di divulgazione e di penetrazione delle informazioni su diverse piattaforme. Le attività delle agenzie di stampa unite al lavoro di network come Russia Today e Sputnik, in un certo senso, sono la prima linea di fuoco, che poi viene diffusa in vari modi sui social. Le grandi piattaforme (Facebook, Youtube e Twitter) sono corse ai ripari, disattivando alcuni network di disinformazione con pagine fasulle create ad arte e finti profili che servono a trasferire sul digitale quello che viene propagato nell’etere da RT, Sputnik e dalle agenzie ufficiali. C’è una connessione tra media e piattaforme digitali che serve a creare, nella propaganda di guerra, una narrativa diversa da quella dei fatti visti in questi giorni. Da questo punto di vista registro con ottimismo l’amplificarsi di voci e progetti che vanno a smontare le campagne di propaganda. Bellingcat è un’agenzia che da diversi anni si occupa di fare open source intelligence sui documenti disponibili online, per verificarne la veridicità. I giornalisti controllano i video che ritraggono ipotetici atti di guerra, verificano le date e i metadati delle immagini, per capirne la geolocalizzazione. Bellingcat, in questi giorni più del solito, sta facendo un lavoro fondamentale: ha smontato diversi contenuti propagandistici che all’inizio del conflitto cercavano di far credere che fosse stata l’Ucraina ad attaccare la Russia e non il contrario. Questa era chiaramente un’operazione falsa creata ad arte con video fake per sostenere una narrativa di guerra favorevole alle azioni di Putin: il classico esempio di propaganda di guerra portata sul digitale nel contesto di porosità tra media tradizionali e nuovi, che poi è una delle strategie più frequenti utilizzate dal Cremlino. Bellingcat è esploso a livello globale con l’inchiesta sull’abbattimento del volo Malaysia Airlines 17 in Ucraina, ricostruendo in modo forensico anche l’origine dei missili che vennero utilizzati. Recentemente ha ricostruito il bombardamento della torre televisiva a Kiev utilizzando video emersi dal web. Mi sento di dire che oggi in Occidente c’è una risposta più potente, ci sono strumenti e pratiche ormai diffuse per andare a smontare le narrative distorte».
I cittadini russi sono consapevoli che Mosca diffonde informazioni distorte?
«Bisognerebbe capire cosa sta succedendo dentro la Russia e se i tentativi di smontare queste narrative sono efficaci anche lì. Una cosa interessante, e questa non è una mia opinione ma lo riportano grandi testate internazionali, è che Putin sembra stia perdendo la sua battaglia di propaganda, perché vi è una controffensiva ucraina molto forte dal punto di vista dell’informazione sul conflitto. Questo è quello che scrive, ad esempio, Foreign Policy, ed effettivamente, dalla mia esperienza personale di osservazione dei social media, mi sembra che la narrativa ucraina stia emergendo in modo abbastanza evidente. Allo stesso tempo, però, la già strettissima censura di Mosca sui suoi media nazionali si sta facendo ancora più stretta e sempre più voci avverse a Putin vengono spente».
Possibile che i media occidentali, questa volta, siano tutti allineati? Quali potrebbero essere i motivi? Durante la pandemia non sono mancate posizioni ambigue o testate che hanno dato voce a personaggi discutibili.
«Di sicuro qua c’è un discorso di chiara evidenza dei fatti: questa è una guerra di invasione decisa in maniera assolutamente unilaterale da Putin. È una guerra totale che si sta manifestando in tutta la sua brutalità e violenza, senza possibilità di smentita. Questo ovviamente favorisce un’unica visione dei fatti. Siamo di fronte al più grave attacco bellico in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. Punto. Non c’è molto da discutere. Forse per una volta ci si può arrendere all’evidenza dei fatti che c’è una storia soltanto e non diverse. Nei fatti di quello che abbiamo visto negli ultimi giorni mi pare non ci sia alcuna possibilità di fraintendimento. Questa generale alleanza nei confronti delle visioni sulla guerra favorisce anche il comportamento dei media. Credo influisca anche il fatto che le voci ucraine si stanno facendo sentire: ci sono molti giornalisti e giornaliste ucraini sul campo che stanno facendo un lavoro virtuoso di narrazione in prima persona del conflitto. Mi sento di citare almeno il Kiyv Independent, una testata molto giovane che ha una padronanza dei linguaggi e degli strumenti digitali invidiabile anche dalle testate più blasonate, ricche e internazionali (Rolling Stone gli ha recentemente dedicato un articolo, ndr). È una testata nata da poco che si sta creando uno spazio, direi unico, nella narrazione del conflitto. Questo è un vantaggio enorme, perché consente di bypassare la coltre della propaganda e far sì che la voce degli ucraini e delle ucraine arrivi non filtrata dagli altri. Infine non sottovaluterei il comportamento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky: con la sua non banale capacità di usare i social per comunicare, è diventato davvero il volto di un Paese intero. Piaccia o meno, quello che sta facendo sta riscontrando un grande successo. Ci sono molti fattori, dunque, e se in Europa sono rimasti in pochi a sostenere le tesi di Putin, mi sembra un ottimo risultato».
Quanto possono pesare le prese di posizione di diversi politici europei su Putin? Penso ad esempio agli apprezzamenti del leader della Lega Matteo Salvini. Chi segue questi partiti «populisti» ora avrà chiaro che il presidente russo, elogiato in passato anche come esempio di democrazia, è in realtà un dittatore che invade e bombarda altri Paesi?
«Credo sia difficile, in ogni caso, rimuovere le credenze e i punti di vista su una figura come quella di Putin. Sicuramente non bastano i lavori del Kiyv Independent o le altre testate che abbiamo citato per ribaltare una percezione radicata così a lungo in una buona fetta della popolazione. Sull’appoggio dei partiti populisti è ampiamente documentata la vicinanza di alcuni di questi, come la Lega, e lo stesso partito di Putin. Non hanno fatto niente per nasconderlo, anzi, se ne vantavano fino a poco fa. La vergogna per certe posizioni è un dato di fatto. La cosa interessante da sottolineare, però, è che da un lato ci sono i media, dall’altro le persone: è presto per dire se questa critica unilaterale dei media alla fine rifletterà la reale opinione pubblica. Servirebbero sondaggi e analisi approfondite per avere una risposta. Però mi sembra che tutto questo risponda a dinamiche molto più ampie, e sicuramente la pandemia ci ha portati altrove rispetto a qualche anno fa, quando l’ascesa delle destre estreme o apertamente neofasciste sembrava destinata a diventare egemonica. Ora si è un po’ attenuata, se non sgonfiata. Sono dinamiche che vanno al di là dei media e vanno più nel campo del posizionamento dei partiti politici. Sicuramente si può dire che Internet non dimentica, quindi i vari selfie, le dichiarazioni, le magliette e le foto celebrative a sostegno Putin di tanti politici sono state tirate fuori da molti in questi giorni».
La narrazione pro Putin può esser stata favorita da una certa disaffezione verso i media mainstream durante la pandemia? Sembra che molti no vax ora siano pro Putin, molto scettici verso il racconto che i giornalisti occidentali stanno facendo di questa guerra...
«Io ho una percezione un po’ diversa su questo. Credo che la pandemia abbia rappresentato un momento di riconoscimento del valore dei media di informazione, grandi e piccoli che siano. Questi sono tutto tranne che perfetti ed è impensabile credere che lo siano e che si comportino sempre in modo egregio: anche durante l’emergenza sanitaria legata al coronavirus hanno fatto errori. Però, al contrario, penso che proprio la pandemia o l’aggressione dell’Ucraina dimostrino più che mai la necessità di avere il giornalismo manifestato in forme istituzionali, come grandi network e giornali. Se c’è una cosa che i grandi media sanno fare, o dovrebbero saper fare, è mettere ordine. Poi, come e se lo facciano è ovviamente discutibile a seconda dei casi, ma nel complesso è una funzione di cui abbiamo ancora tantissimo bisogno. Sono un grande sostenitore della rete ma, in queste circostanze, io per primo mi trovo a cercare “rifugio” nel servizio che i grandi media offrono. Oggi più che mai ci si rende conto di quanto serva questo lavoro, che ovviamente si può criticare nel merito di singole scelte, operazioni o prese di posizione, ma nel complesso è qualcosa che serve in modo esponenziale. Mi chiedo chi possa riuscire a seguire questo conflitto solamente scrollando Twitter tutto il giorno, facendosi poi una visione complessiva. Come sempre, sui social sto vedendo cose straordinarie, come i già citati Bellingcut e Kiyv Independent, ma non dobbiamo dimenticarci che il modo in cui una persona del mestiere riesce a leggere tutto questo non è lo stesso con cui lo fa una persona comune. Senza il lavoro di aggregazione e di creazione di senso dei giornalisti, e senza il lavoro magistrale di chi è in Ucraina a documentare quello che sta succedendo, non credo che avremmo un servizio migliore. I social contribuiscono, anche in maniera radicale, ma credo che chi grida alla necessità di abbandonare i media tradizionali perché mentono, perché sempre al servizio dei poteri di turno o chi dice che l’informazione vera e libera, si trova solo sui social, non sappia di cosa sta parlando».
La Commissione europea ha annunciato di voler oscurare Russia Today e Sputnik: sei d’accordo con questa decisione?
«In linea di principio sono contrario al fatto che queste emittenti siano censurate. Anche la Federazione europea dei giornalisti ha preso posizione in merito. Vorrei che questo precedente non venisse creato. Non è così che si risolve il problema: quello che ci dice la ricerca è che quando si va a colpire in modo così diretto fonti di informazione avverse, la reazione a catena che la censura può avere è spesso controproducente. Non capisco se sia una scelta dovuta all’emergenza del momento o se sia una decisione a lungo termine. D’altro canto non dobbiamo nemmeno commettere l’errore di sovrastimare queste emittenti. L’UE non ha deciso di censurare la BBC o la RAI per meri motivi politici, sta prendendo iniziative nel contesto di sanzioni più ampie, contro organi di propaganda che hanno come core business in questi giorni l’inquinamento dell’informazione e la propaganda. Non sono favorevole alla loro censura, ma non facciamo di queste emittenti qualcosa che in realtà non sono».
Cosa pensi dell’intervento di Anonymous, che si è apertamente schierato contro la Russia mettendo a segno una serie di attacchi hacker?
«In questi giorni stiamo assistendo ad alcune delle cose più interessanti per quanto riguarda il lato cyber dei conflitti contemporanei. Il ritorno così evidente di Anonymous mi ha sorpreso, perché negli ultimi anni era un po’ uscito dall’attualità dei fatti. Poi, parlare di Anonymous è complesso: non ce n’è mai uno solo, ma potenzialmente potrebbero essere mille. Di sicuro è un segnale. Anonymous non ha mai perso l’appuntamento con i grandi eventi e quando c’era spazio per farsi vedere in modo dirompete non si è fatto sfuggire l’occasione. Questo si inserisce in un contesto di operazione molto vasto. Non è una cyber war, non si combatte solo su Internet con strumenti digitali, ma è una guerra fatta di bombe e carri armati. Questo corredo di attacchi informatici avviene sia da parte russa - ricordiamoci che Mosca ha a disposizione un arsenale cyber probabilmente secondo solo a quello della Cina -, sia da parte dell’Ucraina, che sta rispondendo con una chiamata alle armi dal basso per farsi aiutare dal punto di vista cyber. Ci sono hacker attivi da una parte e dall’altra, e tra questi c’è Anonymous, che raramente si schiera dalla parte sbagliata della storia».