Guerra

Quando le bombe su Gaza colpiscono Starbucks, McDonald’s e Coca-Cola

Non si placa in Medio Oriente, ma in anche in Turchia, il boicottaggio dei grandi marchi internazionali: «L'Occidente non fa nulla per fermare Israele»
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Michele Montanari
29.01.2024 09:00

L’Occidente non sta facendo abbastanza per fermare i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, dunque i grandi marchi americani ed europei vanno boicottati. Ne sono convinti numerosi comuni cittadini di alcuni Paesi mediorientali, tra cui Egitto, Giordania e Kuwait, che dallo scorso ottobre hanno scelto di voltare le spalle a note aziende straniere come Starbucks, McDonald’s, Coca-Cola e Pepsi. «È il minimo che possiamo fare», ha detto una 19.enne egiziana a Bloomberg, raccontando che, prima dei pesanti bombardamenti su Gaza, era solita fare colazione da Starbucks insieme ai suoi amici. Le cose sono cambiate: spinti da un senso di rabbia verso gli Stati Uniti e l’Europa, accusati di non fare nulla per fermare Israele, molti acquirenti nella regione mediorientale e in alcuni Stati musulmani, come il Pakistan e la Turchia, stanno evitando i grandi marchi, in alcuni casi facendo crollare le vendite.

Al Cairo, dozzine di negozi Starbucks e McDonald’s, solitamente affollati, sono completamente deserti. E questa forma di boicottaggio sta favorendo i marchi locali come, ad esempio, Spiro Spathis, una bevanda egiziana il cui produttore ha fatto sapere che le vendite sono triplicate dall'inizio della guerra. Questo perché la gente ha smesso di bere Coca-Cola e Pepsi.

In Giordania, gli Starbucks e i McDonald’s sono ancora in gran parte vuoti, nonostante i fenomeni di dissenso siano iniziati in ottobre. Anche i supermercati hanno smesso di vendere numerosi marchi stranieri. In Kuwait, il boicottaggio di Starbucks ha incrementato le vendite dei fornitori di caffè nostrani. Fenomeni simili stanno avvenendo anche negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita, ma con effetti meno dirompenti. Mentre in Turchia alcuni funzionari stanno spingendo per il boicottaggio della Coca-Cola, tant’è che a novembre la bevanda è stata rimossa dalle caffetterie del Parlamento.

Chris Kempczinski, amministratore delegato di McDonald’s Corp., ha fatto sapere che la sua azienda sta riscontrando un «impatto significativo sul business» in Medio Oriente, anche a causa della disinformazione diffusa sull'azienda (ne abbiamo scritto qui). Nel frattempo, le azioni di American Restaurants International – l’operatore in Medio Oriente per KFC, Pizza Hut, Krispy Kreme e Hardee’s – sono crollate sulla Borsa saudita, proprio nei mesi successivi allo scoppio della guerra.

Molte delle aziende in questione hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche per sottolineare la loro neutralità rispetto al conflitto, ma gli acquirenti le identificano comunque con le politiche del governo americano. Una forma di dissenso già vista nel conflitto in Ucraina, quando l’odio della gente si è riversato sui grandi marchi internazionali presenti in Russia.

Secondo Fawaz Gerges, professore di politica del Medio Oriente alla London School of Economics, le recenti forme di protesta sono particolarmente impattanti perché più intense, transnazionali e guidate soprattutto da giovani. I McDonald’s e gli Starbucks restano con le sedie vuote proprio perché stanno perdendo i loro clienti target, particolarmente toccati da quanto avviene a Gaza, dove muoiono molti civili minorenni. Secondo Gerges, queste aziende stanno soffrendo perché la gente proietta le politiche di Washington sugli amministratori delegati delle aziende, che fanno parte del «grande impero economico americano».

Negli ultimi due anni, dozzine di aziende occidentali, tra cui McDonald’s e Coca-Cola, si sono ritirate dalla Russia tra le critiche generali. Perdere anche una fetta di clienti mediorientali sarebbe dunque un altro duro colpo per questi brand, che vedono il mercato occidentale sempre più saturo.