Il caso

Quei bambini malati di tumore che devono ripararsi dalle bombe

Sono i più fragili tra i fragili e le loro famiglie, già spaventate per le gravi malattie dei loro figli, ora devono affrontare anche la paura della guerra – Il conflitto in corso in Ucraina ha tanti volti, questo è uno di quelli più brutti – Ma c’è speranza: Soleterre Onlus, in collaborazione con Zaporuka, li sta mettendo in salvo – E c’è anche una nuova «casa»
© KEYSTONE (AP Photo/Emilio Morenatti)
Jenny Covelli
04.03.2022 15:46

Ci sono bimbi che conoscono il male del mondo. Dovrebbero correre liberi nei prati, invece sono bloccati in un letto di ospedale. Dovrebbero essere spensierati, invece conoscono la sofferenza. Dovrebbero scoprire il mondo con i loro coetanei, invece hanno accanto solo medici e infermieri. Sono i bambini malati oncologici. Se c’è un’ingiustizia che le batte tutte, è proprio il tumore che colpisce un bambino. E, come se non bastasse, a bussare alla loro porta a un certo punto è arrivato l’altro male del mondo: la guerra. È quanto stanno vivendo da ormai una settimana e due giorni i bambini ucraini. I più fragili tra i fragili. Una situazione che la vicina Italia sta seguendo da vicino grazie alla Soleterre Onlus che lavora in tre ospedali ucraini.

L’«operazione militare» di Putin e la paura
Il 24 febbraio, alle 4 di mattina ora svizzera, Vladimir Putin annunciava «un’operazione militare speciale in Ucraina». Alle 8.40 Damiano Rizzi, psicologo clinico e oncologo, presidente della ong Soleterre, registrava un video. «È una situazione inimmaginabile. Sembra che la lezione dell’importanza della vita umana debba essere costantemente misurata sul terreno». La voce rotta dall’emozione. «Ma bisogna occuparsi della vita. Il nostro pensiero adesso è mettere al sicuro i bambini malati di tumore che si trovano in tre ospedali. Due a Kiev, uno a Leopoli». Le sirene nell’aria. Rumori di esplosioni in lontananza. È partito il panico, quello vero. Quello della guerra e delle bombe. E la paura. È iniziata la corsa contro il tempo. Bisognava spostare i piccoli e le loro famiglie nei rifugi.

Bambini malati di tumore che devono ripararsi dalle bombe, dicevamo. Nove famiglie sono state spostate nella casa di accoglienza di Soleterre, a Kiev, al riparo negli scantinati. Lì l’impossibile è stato reso possibile e la ong è riuscita a garantire la continuità della chiemioterapia ai piccoli. Ma gli interventi chirurgici pianificati sono stati annullati e per un bimbo in quelle condizioni è questione di vita o di morte. Venticinque bambini sono inizialmente rimasti in ospedale, presso l’Istituto nazionale del cancro a Kiev e il reparto di Oncologia a Leopoli, che hanno un rifugio antibombe. I «casi più gravi» che non si possono spostare. «È inimmaginabile pensare alla fragilità di un bambino paziente oncologico che ha già il trauma della malattia e deve proteggersi dalla guerra - ammette il presidente -. È qualcosa che va oltre ogni umanità».

Natalia Onipko è la presidentessa dell’associazione locale Zaporuka, che collabora con Soleterre. «Non è facile parlare di guerra con famiglie che stanno affrontando il cancro del loro bambino - ha spiegato a Vanity Fair -. Stanno combattendo un’altra guerra parallela ed è giusto che si concentrino con le loro forze su questo. Ci sono troppe ferite aperte e anche per me è difficile parlare con loro di queste cose. Il nostro lavoro consiste anche nel trasmettere forza, coraggio, speranza, fare stare bene e rassicurare. Dal cancro si può guarire e sicuramente il benessere emotivo e la serenità mentale di questi bambini e dei loro genitori è cruciale per la guarigione. Ecco perché la guerra, con tutte le preoccupazioni che comporta, è più dura per chi è vulnerabile e in condizione di difficoltà».

«Ho paura anche io, ma non abbandono i bambini»
Una guerra, si sa, crea anche problemi di approvvigionamento. E con dei pazienti così fragili, il timore è anche che inizino a mancare i farmaci. I medici, invece di potersi concentrare sul lavoro con i bambini, devono anche preoccuparsi della loro sopravvivenza, perché se accadesse qualcosa a loro, i piccoli non avrebbero più alcuna speranza. Roman Kizyma, referente dell’oncologia pediatrica e primario all’Istituto nazionale del cancro di Kiev, in un’intervista a Famiglia Cristiana ha ammesso candidamente di avere paura. «Ho tre figli e li ho portati fuori città. Io e altri colleghi però restiamo qui in ospedale per stare vicini ai pazienti. Non voglio lasciare il mio paese e così la pensano gli altri medici, molti neppure trentenni, che lavorano con me. Voglio continuare a fare il mio lavoro accanto ai bambini».

È stato un lavoro estenuante, portato avanti tra angoscia e preoccupazione. Ma i rifugi sotto gli ospedali hanno consentito ai bambini più gravi di proseguire le cure al sicuro. E mercoledì è avvenuto un altro miracolo. Non di quelli divini, ma delle persone. Reso possibile grazie alla cooperazione, alla solidarietà e all’impegno. L’unione delle persone. Tutti i bambini ricoverati nella casa d’accoglienza e presso l’ospedale di Kiev sono stati evacuati. «Siamo riusciti a farli uscire dalla capitale, hanno viaggiato tutta la notte fino alla frontiera per uscire dal paese», ha annunciato il dottor Rizzi con (finalmente) un sorriso. Un viaggio al buio, ma nella speranza. Speranza condivisa da Roman Kizyma, grato per la fuoriuscita dal Paese di tutti i piccoli pazienti oncologici: «Il supporto che stiamo ottenendo è una condizione che renderà impossibili in futuro le guerre», ha scritto in un sms.

800 chilometri in treno, bus e a piedi
Brividi. Ieri 11 bambini che la onlus ha evacuato dall’Istituto nazionale del cancro di Kiev sono stati accolti presso il Policlinico San Matteo di Pavia e l’Istituto dei tumori di Milano. Questa notte hanno dormito insieme alle loro mamme sotto un cielo di stelle. Non c’erano più le sirene. Nessuna esplosione. Niente bombe. «Questi bambini hanno percorso 2.225 chilometri, di cui 800 tra treno, bus e a piedi - racconta il dottor Rizzi -. Sono saliti su un aereo e l’ultima tratta l’hanno percorsa a bordo di un’ambulanza». Ma finalmente sono in un ospedale, al sicuro, al caldo. Sono ancora molto malati, hanno bisogno di cure. Ma possono farlo in serenità.

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