Quell'oleodotto tra Tanzania e Uganda che non piace agli ambientalisti

Da una parte ci sono due Paesi che premono per il proprio sviluppo economico. Dall'altra, un'agenzia internazionale che invita a rallentare e ridimensionare gli ambiziosi progetti, a favore del clima. Parliamo di quanto sta accadendo in questi giorni in Africa e, nello specifico, in Uganda e Tanzania, dove a breve inizieranno i lavori per la costruzione di un massiccio oleodotto. Un impianto che, tuttavia, inizierà ad essere realizzato un anno dopo l'avvertimento dell'Agenzia internazionale per l'energia (AIEA) in cui si invitava a fermare i nuovi progetti sui combustibili fossili, di modo da raggiungere gli obiettivi climatici ormai prefissati da tempo. Due ambizioni completamente diverse, insomma. Che potremmo definire addirittura opposte. Ai due Paesi dell'Africa orientale, infatti, la raccomandazione dell'AIEA non solo non piace, ma non è stata neppure presa in considerazione. Per loro, l'unica priorità, al momento, è solo e soltanto lo sviluppo economico. Ma per Kampala e Dodoma ci sono brutte notizie. A quanto pare, infatti, l'AIEA non è l'unica intenzionata a mettere loro «i bastoni fra le ruote». Ecco cosa sta accadendo.

Un progetto controverso
Per capire meglio cosa stia succedendo in questi due Paesi dell'Africa è necessario fare un passo indietro nel tempo. Già due anni fa, come riporta la BBC, alcuni abitanti della penisola di Chongoleani, a circa 18 chilometri di distanza dalla città portuale di Tanga, hanno venduto la loro terra, in cambio di un indennizzo. Una ricompensa ben motivata dalla decisione del governo, che aveva appena firmato l'accordo per la costruzione di un oleodotto. Già. Quel famoso oleodotto su cui sta cercando di imporsi l'AIEA, per evitarne la costruzione. Se venisse mai ultimato, l'impianto raggiungerebbe i 1.440 chilometri di lunghezza, guadagnandosi il titolo di oleodotto riscaldato più lungo al mondo. E non solo. Una volta in funzione, trasporterebbe il greggio dalle rive del lago Alberto, nell'Uganda occidentale, fino in Tanzania, dove sorgerebbe un altro terminale di stoccaggio, proprio a Chongoleani. Un progetto di questo genere, neanche a dirlo, porterebbe grossi benefici economici a entrambi i Paesi. Ma dopo l'AIEA, qualcun altro si è aggiunto al coro dei contrari, rendendo ancor più complesso procedere senza intoppi con gli imminenti lavori di costruzione.
Dissapori anche con l'UE
Nel mese di settembre, ha fatto capolino anche l'UE, che si è intromessa chiedendo che l'EACOP (nome del progetto, East African Crude Oil Pipeline) venga interrotto. La ragione? «Violazione dei diritti umani e preoccupazioni dell'ambiente e il clima», riportiamo citando la stessa Unione Europea. Un intervento che, ad ogni modo, non è valso apparentemente a nulla. I governi ugandese e tanzaniano non hanno infatti perso tempo e, in men che non si dica, hanno respinto la proposta dell'UE, ribadendo l'importanza «vitale» che l'oleodotto avrebbe per le rispettive economie. E non è tutto. Nel cestinare l'intervento dell'Unione Europea, i governi non si sono privati neppure del commentare puntigliosamente e senza filtri gli oppositori. «Sono insopportabili, così superficiali, così egocentrici, così sbagliati». Questi gli aggettivi affibbiati ai legislatori europei dal presidente ugandese Yoweri Museveni. Ma come spiega la BBC, la sua frustrazione è in buona compagnia. Secondo alcuni sostenitori dello sviluppo economico dell'Africa, il Continente ha tutto il diritto di usare le sue ricchezze di combustibili fossili per svilupparsi «esattamente come hanno fatto le nazioni ricche per centinaia di anni». Ma c'è anche un'altra questione. I sostenitori dello sviluppo economico dell'Africa hanno infatti messo sotto i riflettori un altro aspetto: quello delle emissioni di gas climalteranti, che nel continente africano sarebbero solo del 3%, contro il 17% dei Paesi dell'Unione Europea. «È un'ipocrisia», ha affermato a tal proposito sempre alla BBC Elison Karuhanga, membro della Camera delle miniere e del petrolio dell'Uganda. «A differenza delle nazioni ricche che rimarranno ricche anche quando i loro introiti da petrolio e gas verranno sottratti, noi non possiamo permetterci di giocarci il futuro delle generazioni ugandesi su ipotesi».
Nonostante le opposizioni
Tuttavia, il progetto africano - per ora - non si ferma. Nonostante le opposizioni europee, Tanzania e Uganda proseguono con il proprio obiettivo. Si stima che il primo petrolio dovrebbe essere estratto in tre anni, con almeno 230.000 barili pompati ogni giorno al suo picco. Una funzione di questo tipo permetterebbe all'Uganda di guadagnare tra 1,5 e 3,5 miliardi di dollari all'anno. Il che equivarrebbe a una percentuale compresa tra il 30 e il 70% delle sue entrate fiscali annuali. La Tanzania, invece, dal canto suo, otterrebbe almeno 12 dollari al barile, per un guadagno annuale che ammonterebbe a un miliardo di dollari. A quanto pare, però, nemmeno le floride prospettive di crescita economica dei due Paesi sono state sufficienti per convincere gli ambientalisti di Stop Eacop, che si battono proprio per impedire la realizzazione dell'oleodotto. Come si legge sul loro sito web, in particolare, invitano le banche locali a non sostenere in alcun modo il progetto. «Una banca responsabile non sosterrebbe un progetto di combustibili fossili che minaccia le risorse idriche e i mezzi di sussistenza di milioni di persone nel bacino del Lago Vittoria, insieme ad alcune delle più importanti riserve naturali di elefanti, leoni e scimpanzé del mondo, che trasporterebbe una quantità di petrolio tale da generare oltre 34 milioni di tonnellate di emissioni di carbonio in più ogni anno», si legge sul loro sito. Oltretutto - specifica sempre l'associazione - l'oleodotto passerà vicino al Parco nazionale di Murchison Falls, un'area ricca di biodiversità e di terreni agricoli. E secondo le stime del gruppo, l'oleodotto produrrà ben 34 milioni di tonnellate di emissioni nocive di carbonio ogni anno.
Cosa succederà ora?
In fin dei conti, cosa ne sarà di questo tanto discusso oleodotto? Nonostante le molteplici voci contrarie, Tanzania e Uganda sembrano determinate a proseguire per la loro strada. Dal canto suo, TotalEnergies - che detiene una partecipazione del 62% nel progetto - ha dichiarato alla BBC che il percorso dell'oleodotto è stato concepito nell'ottica di ridurre al minimo l'impatto sul paesaggio e sulla biodiversità, andando anche a migliorare le condizioni di vita locali. Tuttavia, per alcuni attivisti per il clima ugandesi, le cose sono messe diversamente. EACOP - a loro dire - trasformerà l'Uganda in una «stazione di rifornimento» per l'Europa e per la Cina. E il Paese stesso, dunque? A detta degli attivisti, i proventi del progetto andranno solo a beneficio dell'élite. Da una parte, però, la stessa ECOP ha dichiarato di avere in programma di costruire una raffineria in Uganda per il suo consumo interno, al momento il greggio del nuovo oleodotto sarebbe principalmente destinato all'esportazione, in particolare in Europa proprio a causa - neanche a dirlo - delle ripercussioni della guerra in Ucraina.
Mentre l'Unione Europea, l'AIEA e diversi attivisti si battono per cercare di formare la costruzione del mega progetto, a Chongoleani, intanto, coloro che hanno dovuto lasciare le loro case per permettere di realizzare l'oleodotto si lamentano del risarcimento ricevuto, giudicato insufficiente. Ma nonostante tutto, rimane la speranza di veder presto il proprio Paese fiorire, proprio grazie all'oleodotto.