Ribaltare il mondo in 100 giorni: «Ma Trump per ora sta fallendo»

Sono trascorsi cento giorni dal secondo insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump. Cento giorni che sembrano almeno un paio d’anni, perché il presidente americano è iper-presente in ogni momento, in ogni ambito della politica e dell’economia, in (quasi) ogni notizia di agenzia. Prima arriva Trump, le sue parole e i suoi decreti, poi tutto il resto. Cento giorni. Il tempo, brevissimo, servito al tycoon per rompere ogni regola, riscrivere l’ordine mondiale e posizionarsi come una delle persone più controverse della storia moderna. Ma quale bilancio trarre da questi tre mesi abbondanti? Che tipo di mondo sta plasmando l’uomo più potente della Terra? Lo abbiamo chiesto a Mario Del Pero, professore di Storia all’istituto di Sciences Po di Parigi ed esperto di storia americana.
Una firma dietro l’altra
Difficile, vista la mole di decisioni prese dall’inizio del suo secondo mandato, trovare un punto d’incontro nelle politiche portate avanti da Trump. «In questo periodo il presidente USA ha promulgato oltre 140 ordini esecutivi», dice non a caso Del Pero. «Ricordo che Joe Biden ne ha firmati 42, Barack Obama 19». Un confronto impari e che «dà la cifra di questo attivismo presidenziale». Un attivismo, però, che il professore definisce a tratti «surreale». Un esempio? «L’ordine esecutivo per modificare la pressione delle docce, per fare grandi nuovamente le docce americane, ‘‘make showers great again’’». Un decreto, appunto, che potremmo definire «dadaista». Ma che non ha un impatto profondo. Altri decreti, invece, hanno assunto un significato ben diverso. «Cito il decreto esecutivo che intende abrogare il 14. emendamento (ossia la parità di trattamento e i diritti civili, ndr)», sottolinea il professore. «Trump ha cercato e cerca tuttora di modificare la Costituzione americana a colpi di penna presidenziale». Un attivismo frenetico, dicevamo, «tutto incentrato sui poteri dell’Esecutivo o su una rivendicazione di poteri che travalica decisamente i dettami costituzionali. E questo per rivendicare, da parte di Trump, che non ci sono pesi e contrappesi, bensì un potere unitario e predominante: quello del presidente». Un problema serio, perché, come annota Del Pero, «dal momento che un presidente non accetta i verdetti del potere giudiziario, si creano i presupposti di una crisi costituzionale».
A picco nei sondaggi
Al di là dell’attivismo sfrenato, ciò che colpisce è il gradimento di Trump: nei sondaggi risulta il presidente meno amato. Insomma, non ha convinto (eufemismo) l’opinione pubblica. «Ma i sondaggi erano bassi già in partenza», avverte il nostro interlocutore. «È filtrata l’idea di una grande vittoria elettorale a novembre, ma le cose non stanno certo così». Trump ha vinto, certo, ma non ha sfondato. Anzi. «Da quando Gallup nel 1953 con Eisenhower alla Casa Bianca ha iniziato a misurare il tasso di approvazione, nessun presidente ha fatto peggio del tycoon». Il consenso dell’operato di Trump era dunque basso sin da subito ed è rapidamente calato dopo le prime decisioni. «Un modo di agire erratico, come abbiamo potuto vedere con i dazi prima annunciati, poi introdotti e infine tolti», evidenzia Del Pero. Una schizofrenia che non ha lasciato indifferente l’elettorato americano, alla quale va poi aggiunta la spinta verso l’autoritarismo. Eppure, spiega l’esperto, è un altro l’indicatore-chiave da tenere in considerazione. «Quello che raccoglie la fiducia dei consumatori. Un tasso calato in maniera repentina». Il che porta a un’altra conseguenza: «Percentuali di fiducia così basse stanno spingendo Trump ad agire ancora più rapidamente per non perdere anche il capitale di fiducia che gli resta». Lo sguardo, allora, è già alle elezioni di metà mandato, il famoso «midterm». «Se il ciclo politico si svolgerà regolarmente, alla luce di questi numeri Trump rischia di perdere una delle due Camere».
I mercati non hanno fiducia
Per ora siamo di fronte a un fallimento interno e a un dato politico piuttosto netto. Ma anche nei confronti del mondo economico le cose non vanno meglio. «La questione dei dazi, in questo senso, è un buon esempio», aggiunge Del Pero. «I mercati hanno risposto malissimo. Non a caso gli USA hanno faticato a collocare il loro debito, perdendo credibilità. Non solo: ci si è posti il problema di come finanziare l’imponente debito americano». E se i tassi di interesse salgono, la crisi economica è dietro l’angolo. Già. Ma quale significato dare alla politica dei dazi portata avanti dal presidente? «I dazi, nella filosofia trumpiana, servono a una pluralità di ragioni che non sono strettamente economiche. È vero, a prima vista le barriere doganali possono passare per la volontà di ridurre il deficit commerciale nei confronti degli altri Paesi e di re-industrializzare l’America. Ma con Trump i dazi hanno un altro significato: quello di punire attori che fanno politiche diverse dalle sue. Pensiamo al Messico che non controlla il confine nord, oppure l’Europa che cerca di regolamentare i giganti tecnologici americani. Ecco: il tutto rientra nel disegno autoritario già accennato in precedenza. Perché rimanda all’idea che è il presidente, e nessun altro, a disporre a piacimento delle leve del potere».
La guerra è irrisolta
Una spinta all’autoritarismo che come visto si rispecchia anche nella politica interna. «Sui temi nazionali, Trump sta intervenendo», ricorda Del Pero. «Soprattutto nella repressione del dissenso, nella lotta all’immigrazione illegale perseguita con misure draconiane, nell’istruzione e nella ricerca». Il radicalismo trumpiano, quindi, si nota in particolare nei confronti dell’America stessa. «È qui che la torsione autoritaria è più visibile», spiega l’esperto. «Sulle prime, molti hanno capitolato di fronte a queste politiche. Solo ultimamente si nota un vento diverso: Harvard ha alzato la testa, alcuni Governi statali pure, così come certi tribunali. Ma la partita, sul fronte interno, è apertissima: il rischio di una pericolosa deriva autoritaria è molto forte». Sul fronte della politica estera, invece, il discorso è diverso. L’attivismo del presidente USA è marcato, sì, ma i risultati - al netto dei proclami - al momento sono scarsi. L’esempio è la guerra in Ucraina, che prosegue nonostante sforzi diplomatici continui e controversi. Putin continua a fare ciò che vuole e a erodere territori. «I contorni generali di un’eventuale cessazione del conflitto sono piuttosto chiari da parte americana», rileva il professore. «Concessioni territoriali a Mosca, come la Crimea. E qualche garanzia di sicurezza a Kiev, l’unico meccanismo che può completare il quadro di un accordo. Senza queste garanzie, però, tutto è monco: a Putin interessa esibire la sua forza militare per cercare condizioni negoziali ancora migliori. In definitiva, se gli USA si sfilano dalla questione o non prendono una posizione chiara sulle garanzie, viene giù il castello». Per evitare questo scenario serve di conseguenza un’azione diplomatica decisa, costante. Che vada quindi a seguire quanto stanno facendo i Governi europei con la coalizione dei volenterosi. Ma finora, anche su questo fronte, Trump si è dimostrato un partner poco affidabile.
Le persone sbagliate
Alla luce di questi risultati, c’è chi parla di superficialità. Non solo nelle politiche, ma anche nelle persone scelte nell’amministrazione. Pensiamo al caso delle chat di guerra condivise dal segretario per la Sicurezza nazionale Mike Waltz con un giornalista di The Atlantic. «Ci sono figure dell’amministrazione Trump palesemente inadeguate al ruolo», taglia corto Del Pero. «Ma farei attenzione a dare patenti di incompetenza, perché ciò rimanda all’arroganza di altre figure chiave che alla Casa Bianca hanno fallito in passato. Mi spiego: ci sono moltissime ragioni per prendere in giro, ad esempio, il segretario alla Difesa Pete Hegseth. Una figura improponibile, certo. Ma una figura che segue un ventennio di politiche di difesa fatte da presunti grandi esperti che hanno ottenuto pochissimo. Penso all’Iraq, all’Afghanistan». Insomma, un fallimento continuo. E che per certi versi legittima le scelte di Trump. «Ma ciò non toglie che ci sono persone sbagliate al posto sbagliato».
Che fine ha fatto Musk?
Insomma, da qualsiasi parte lo si guardi, il secondo mandato di Trump per il momento è un disastro. E neppure l’appoggio dell’uomo più ricco al mondo - Elon Musk - è servito a raddrizzare il vascello americano durante questi mesi. Tanto che l’uomo Tesla sembra destinato a sparire molto presto dalla scena politica. «Personalmente non avrei scommesso su un Musk destinato a durare», rileva Del Pero. «È una figura impopolare, anche perché simboleggia una élite globalista che non piace a un pezzo di America trumpiana. Steve Bannon, ad esempio, lo ha stroncato subito». Il destino di Musk sembra quindi già scritto. Ancora una volta, i reboanti comizi e le parole non si sono tramutati in fatti. «Se Trump, secondo i sondaggi, è impopolare, Musk riesce a fare addirittura peggio», rimarca l’esperto. «Tanto che l’uscita dal DOGE sembra essere dietro l’angolo. A mio parere, questa esperienza politica potrebbe anche aver danneggiato il suo lato imprenditoriale».