Romano Prodi: «Com'è cambiato il mondo? Ai tempi ci chiedevamo quando la Russia sarebbe entrata nell'UE»
Domenica sarà ospite di Endorfine al Palazzo dei Congressi di Lugano. Per parlare di ciò che è stato. E di ciò che ci attende sulla scena globale. Romano Prodi, oggi, ha 85 anni e un passato importante, anzi importantissimo alle spalle: economista, docente universitario e dirigente d’azienda, è stato presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004 e presidente del Consiglio dei ministri dal 1996 al 1998 e, ancora, dal 2006 al 2008. Lo abbiamo intervistato.
Professor Prodi, le lanciamo subito una provocazione: vedendo
che cosa sta succedendo nel mondo da almeno due anni a questa parte, verrebbe
da dire che lei e la sua generazione eravate molto più bravi nel tessere
relazioni e mantenere l’equilibrio. O è solo un’impressione?
«Mi è difficile rispondere, anche perché da quando sono uscito dalla politica c’è
stato un deterioramento progressivo. È vero che, ai miei tempi, i rapporti con
la Russia tanto per fare un nome erano differenti. Vi basti pensare che, a un
vertice fra Commissione Europea e Mosca, ci chiedevamo quando la Russia sarebbe
entrata nell’Unione Europea. Quando, non se. Oggi, beh, è cambiato tutto».
Lei fu protagonista del quinto allargamento dell’Unione
Europea, nel maggio del 2004, con l’ingresso di dieci Paesi. Un ingresso avvenuto
fra abbracci, sorrisi e pacche sulle spalle, all’insegna dell’unità. Che ne è
stato di quel clima?
«Di
quei dieci Paesi, otto erano legati al vecchio Patto di Varsavia. Ma l’allargamento,
badate, avvenne senza alcuna tensione con la Russia. Non ci fu, insomma, una
rottura degli equilibri mondiali mentre lo scontro, adesso, si è palesato in
maniera totale».
Appunto, che ne è stato di quel clima? È rimasto
qualcosa, anche all’interno della stessa Unione Europea?
«Intendiamoci:
questi Paesi sono rimasti. E, in generale, sono contenti di far parte dell’Unione
Europea. C’è appena stata la celebrazione dei vent’anni all’interno dello
spazio comune. Mettiamo da parte le tensioni con l’Ungheria e con Orbán. La
vita di molte persone, in questi Paesi, è cambiata. Totalmente».
Che cosa le ha lasciato, personalmente, quell’allargamento?
Che cosa le ha insegnato?
«La
democrazia, allora, non si espanse con l’esercito. Si espanse grazie alla
democrazia stessa. Furono questi Paesi, i loro popoli e parlamenti, a volere il
cambiamento. A volere l’Europa».
E l’Europa rispose presente…
«Non
senza fatica, una fatica terribile, ma certo con enorme soddisfazione. Sempre,
però, con in testa un’idea: che la democrazia non si può esportare con le armi,
come fecero gli americani in Iraq. Noi, come Unione Europea, andammo incontro a
questi popoli. Rendendoli, infine, compatibili alla nostra legislazione e alle
nostre regole».
Non le chiediamo un giudizio sul caso Sangiuliano, ma
le chiediamo se l’attuale classe politica, in Italia, sia pronta a raccogliere
e affrontare le sfide che presenta questo mondo multi-crisi. Per farla breve,
il governo Meloni è all’altezza della situazione?
«No,
non lo è. Come non lo è, però, quello francese o quello tedesco. Qui tocchiamo,
davvero, i problemi della democrazia. Io, a suo tempo, mi stupivo sempre del
buon funzionamento della Germania a livello politico. Un Paese capace di passare
da un sistema con un partito unico al governo a grandi coalizioni in grado,
sempre, di fare il bene comune. Oggi, però, l’attuale coalizione è formata da
tre partiti di cui due faticano a parlarsi fra loro. Quando la democrazia si
complica in questo modo, non è facile poi trovare una leadership».
Lei diceva prima che la democrazia non si esporta con
le armi, ma l’Unione Europea – venendo alla regolamentazione di Big Tech, dei
social e soprattutto dell’intelligenza artificiale – a un occhio disattento può
sembrare molto più autoritaria e guerrafondaia che autorevole e corretta. Che
ne pensa?
«Una
cosa è il blocco tout court dei social e dei media, tipico dei Paesi
dittatoriali. Un’altra la regolamentazione della rete e dei social,
assolutamente necessaria. E l’Europa, credo, in questo senso è sulla via
giusta. Ma c’è un problema».
Quale?
«Non
possiamo essere solo noi europei a regolamentare il settore. Detto in altri
termini, senza una forza persuasiva, senza una vera capacità politica,
rischiamo di essere quelli che scrivono il menù lasciando agli altri, americani
e cinesi, il compito di sedersi a tavola e mangiare. È la mia preoccupazione
più grande. È un bene che l’Europa sia all’avanguardia nella regolamentazione
della rete, ma poi deve avere altresì la forza di far accettare questi
regolamenti altrove. In caso contrario, cade tutto».
Siccome sarà a Lugano, ospite di Endorfine, le
chiediamo infine che partita può e deve giocare la Svizzera in questo contesto
così frammentato.
«Durante
i miei mandati ho sempre avuto buoni rapporti con la Svizzera. Perché partivo,
penso, dal principio che la Confederazione e l’Unione Europea fossero profondamente
legate. Quando ero alla presidenza della Commissione Europea, non feci mai
sforzi affinché Berna entrasse come Paese membro. La mia massima, valevole
anche oggi, è che la Svizzera aveva molto da guadagnare ma anche molto da
perdere a entrare. Meglio, molto meglio andare per gradi, con accordi progressivi.
È ciò che ci prefissammo durante la mia permanenza alla Commissione».
Il suo consiglio, quindi, pensando ai negoziati sulle
future relazioni fra l’UE e la Svizzera?
«Con
la Svizzera bisogna trattare empiricamente, pezzo per pezzo, senza fare grandi
rivoluzioni. So che è difficile farlo. Ma le basi ci sono: andiamo già d’accordo
su moltissime cose, penso ai commerci e ai rapporti culturali. Berna, per farla
breve, non è certo un’entità extraeuropea».