San Pietro passa dai capi di Stato e il porpora ai giovani e i loro colori

Papa Francesco non partiva mai senza affidarsi a Maria Salus Populi Romani, l’antica icona conservata a Santa Maria Maggiore. All’inizio e alla fine di ogni viaggio apostolico, si fermava lì, davanti a quel volto di madre. Oggi, sono i fedeli a camminare verso di lui. A varcare le soglie della Basilica nella quale ha scelto di essere sepolto, in una tomba semplice, di marmo ligure. Il marmo della terra d’origine della sua famiglia.
Dall’alba, migliaia di persone si sono messe in fila davanti a Santa Maria Maggiore per rendere omaggio a papa Francesco, nonostante il caldo torrido di Roma che ha reso ancora più impegnativa l’attesa. Tra la folla, volti stanchi ma sereni; bottiglie d’acqua strette in mano e canti religiosi - più o meno intonati - per alleviare la fatica e tenere alto lo spirito. Secondo i dati ufficiali, sono stati oltre cinquantamila i pellegrini transitati oggi davanti alla tomba del pontefice. Molti di loro erano partiti durante la notte, altri erano arrivati con i primi treni del mattino, altri ancora avevano bivaccato di fronte all’ingresso della Basilica poche ore dopo la fine del funerale di sabato. Come in un pellegrinaggio antico, il cammino stesso sembrava trasformarsi in preghiera, passo dopo passo.
I paradossi non mancano
Una spiritualità, un rito collettivo, interrotto solo da quei paradossi che, nel bene - e talvolta nel male - rendono unica Roma. Come quando un politico, accompagnato dalle forze dell’ordine, ha tranquillamente saltato la fila, suscitando ben più di un malumore tra chi attendeva pazientemente. Ma il clima di raccoglimento si è ricomposto presto, come se il bisogno di rendere omaggio al pontefice superasse ogni amarezza.
Tra le migliaia di persone in attesa riconosciamo, grazie alla maglia del Lugano indossata da un ragazzo, un gruppo di fedeli ticinesi. «Siamo qui dalle 6.30 - raccontano, ancora lontani dall'ingresso - Speriamo di riuscire a entrare prima del nostro treno di ritorno. Ci dispiacerebbe non farcela».
La giornalista protestante
I componenti del gruppo non erano gli unici ticinesi presenti a Santa Maria Maggiore. Nella Basilica abbiamo infatti incontrato anche Gaëlle Courtens, caporedattrice di Voce evangelica, da anni impegnata nella comunicazione per le chiese evangeliche riformate italofone in Svizzera e nelle attività ecumeniche internazionali, oltre a essere cocuratrice della rubrica radiofonica «Chiese in diretta» di ReteUno. Nonostante la diversa appartenenza confessionale, Courtens ha voluto essere presente in questi giorni di omaggio a papa Francesco. «L’approccio deve essere ecumenico - dice - In questo momento, dobbiamo esprimere vicinanza alle sorelle e ai fratelli cattolici che perdono la loro guida spirituale. Francesco, come tutti i pontefici, è stato per noi un fratello in Cristo». Courtens ha ricordato i gesti storici del Papa: dalla visita alla comunità valdese di Torino, alla commemorazione dei 500 anni della Riforma con i luterani. «Francesco ha dato segnali fortissimi, anche se i documenti ufficiali non hanno ancora colmato tutte le distanze teologiche», sottolinea la giornalista ticinese. «Toccherà al prossimo Papa - aggiunge - raccogliere i semi che Bergoglio ha lasciato, nel dialogo e nell’azione concreta. Il futuro dell’ecumenismo dipenderà da quanto egli saprà far vivere l’eredità del pontefice argentino».
La messa in suffragio
La grande folla raccolta a Santa Maria Maggiore, che ha costretto il prefetto di Roma Lamberto Giannini a misure straordinarie come la chiusura di via Liberiana e la deviazione dei trasporti pubblici, non ha tuttavia tolto forza alla celebrazione in piazza San Pietro. Anche se con numeri inferiori rispetto al funerale del giorno prima, circa 200 mila persone si sono infatti radunate per la messa in suffragio presieduta dal cardinale Pietro Parolin.
Se sabato la porpora delle vesti cardinalizie e la presenza dei capi di Stato dominavano la scena, oggi San Pietro si è accesa dei colori dei giovani: il blu delle divise scout, il verde delle magliette dei gruppi di giovani pellegrini, gli ombrelli per ripararsi dal sole, le bandiere, gli striscioni e l’entusiasmo portati dagli adolescenti accorsi per il loro Giubileo. Non più l’ufficialità dei leader politici, ma la freschezza di migliaia di ragazzi, i primi germogli di quel campo di speranza che Papa Francesco, l’agricoltore di pace, aveva seminato con pazienza.
Durante l’omelia, Parolin ha richiamato proprio questo spirito, ricordando Francesco come «un testimone fedele che ha continuato a indicare Cristo anche nelle tempeste», e affidando ai giovani il compito di essere «artigiani della pace» e «costruttori di ponti». Un’eredità che trova nuova linfa proprio nella folla colorata che ha animato la piazza.
Alla fine della messa, il suono delle campane si è liberato tra le colonne del Bernini, abbracciando il silenzio dei presenti. La finestra da cui Francesco si affacciava per l’Angelus è rimasta chiusa. Nessun volto a salutare, nessuna parola a benedire. Ma nella luce limpida di una straordinaria domenica mattina romana, la sua presenza sembrava ancora viva: negli occhi rivolti al cielo, nei canti che nascevano spontanei, nella fede semplice dei giovani. Anche senza vedersi, il suo messaggio continua a fiorire: radici profonde che, lontano dalla nostalgia, alimentano il futuro della Chiesa.