Sarà di nuovo Erdogan, il Sultano che tratta con tutti

«Questa canzone non finisce qui». Quando il 26 marzo 1999 fu portato in carcere, Recep Tayyip Erdogan pubblicò un album musicale di poesie recitate con una profezia nel titolo che si sarebbe rivelata corretta.
A tre anni dalla prigionia durata 4 mesi in seguito alla condanna per «incitamento all'odio» ricevuta mentre era sindaco di Istanbul, il suo partito conservatore AKP vinceva per la prima volta le elezioni e nel 2003 Erdogan diventava premier alla guida del primo governo monocolore islamista della storia della Repubblica laica di Turchia, fondata 80 anni prima da Mustafa Kemal Atatürk. Chiamato a confermarsi al ballottaggio, venendo al presente, dopo aver vinto un primo turno ricco di insidie, l'uomo forte del Paese può nuovamente sorridere: risultati alla mano, resta (con forza) in sella.
Spesso indicato in Occidente come il Sultano a causa della sua riverenza per il periodo ottomano, Erdogan è rimasto in sella per un periodo più lungo dei 15 anni di Atatürk, rispetto al quale è stato dipinto come l'antitesi. Quando salì al potere ereditò una situazione economica che si era appena stabilizzata dopo la dura crisi della fine degli anni '90 e riuscì in seguito a trainare il Paese verso una rapida crescita.
Da premier aprì ufficialmente il negoziato per l'adesione della Turchia all'Unione Europea e promosse un referendum con il quale venivano emendati articoli della Costituzione che davano ampia protezione all'esercito, riforma malvista dalla parte della popolazione turca fedele al potere dei militari. Mentre l'economia cresceva, la parabola del suo AKP veniva paragonata in Occidente alle migliori esperienze cristiano-democratiche europee.
I primi 10 anni al potere sono caratterizzati anche da una politica conciliante nei confronti delle minoranze, come quella curda. Si deve proprio a Erdogan l'accordo tra i servizi segreti turchi e il Partito dei lavoratori del Kurdistan PKK che portò a un breve periodo di tregua tra i militanti curdi armati e l'esercito di Ankara.
Il 2013 rappresenta invece il punto di svolta per la Turchia e per la carriera del Sultano. Le rivolte di piazza anti governative che esplosero quell'anno in tutto il Paese, con epicentro a Gezi Park, a Istanbul, vennero soffocate con la forza e in tre mesi 11 persone morirono negli scontri con le forze dell'ordine. Dall'anno successivo le dimostrazioni dei dissidenti cominciarono a essere sempre più represse o vietate e nel 2015 svanì anche l'illusione della pace con il PKK. Il terrorismo, sia rivendicato dall'ISIS che da gruppi curdi, colpì duramente il Paese e in un anno e mezzo morirono centinaia di persone, più delle vittime in Italia nell'intero periodo degli anni di piombo.
Il tentato golpe del 15 luglio 2016, secondo Ankara organizzato dal predicatore islamico turco residente negli Stati Uniti Fethullah Gülen, per anni un alleato di Erdogan, fu sventato grazie all'iniziativa del Sultano che invitò i cittadini a scendere in strada per opporsi ai militari. Riuscì a restare al potere e scatenò purghe clamorose con l'arresto di migliaia di persone ma la crescita economica aveva già cominciato a rallentare, la lira turca iniziò a perdere sempre più valore e il negoziato con l'UE entrava in una fase di stallo, tra le critiche sempre più frequenti di Bruxelles per la sistematica repressione di oppositori e voci critiche.
Nonostante la crisi economica e nessun passo indietro rispetto alle violazioni dei diritti umani, Erdogan è riuscito comunque a mantenere un rapporto con l'Europa grazie anche alla decisione di tenere in Turchia quasi 4 milioni di rifugiati siriani in cambio di fondi europei. Mentre con l'inizio del conflitto in Ucraina ha ottenuto l'apprezzamento del mondo occidentale per il ruolo di mediatore, come in occasione dell'accordo sul grano, Erdogan è pure stato fortemente criticato per il rapporto, stretto, con il presidente russo Vladimir Putin.
Sia quel che sia, la Turchia è ancora nelle sue mani.