La storia

Se ai cinesi piace il gioco d'azzardo

In Cina non possono giocare perché così dice il Partito comunista, all'estero prendono d'assalto i casinò: la doppia vita dei giocatori del Dragone fra opportunità e strette annunciate da Xi Jinping
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Marcello Pelizzari
06.12.2022 20:45

Secondo le stime di James Packer, un imprenditore australiano attivo nel gioco d’azzardo, l’80% dei cinesi che viaggiano all’estero per la prima volta, beh, visita un casinò. Il dato è riportato dall’Economist ed è legato, inevitabilmente, alla politica repressiva (eufemismo) di Pechino. Che, di fatto, ha strozzato la domanda vietando il gioco d’azzardo entro i confini del Paese, eccezion fatta per la lotteria di Stato.

Nel frattempo, però, sempre più cinesi hanno guadagnato abbastanza soldi per viaggiare. E quella strozzatura si è trasformata in una sete, fortissima, di roulette e qualsiasi altra diavoleria legata ai casinò. «La classe media cinese cambierà il mondo» ha sentenziato, non a caso, proprio Packer.

Il ruolo di Macao

Se non proprio il mondo, la Cina – inavvertitamente – ha cambiato l’Asia e l’Oceania. La maggior parte dei 340 casinò presenti nel Sudest asiatico, infatti, è stata costruita con un preciso scopo: attirare giocatori d’azzardo cinesi, impossibilitati a soddisfare la propria voglia in patria. Si tratta, manco a dirlo, di un’industria fiorente. Secondo le stime, i divieti imposti dal Partito comunista costano, ogni anno, qualcosa come 144 miliardi di dollari. Che finiscono nelle casse dei casinò sparsi nel continente.

L’esplosione del gioco d’azzardo, in Asia, è avvenuta anche (se non soprattutto) grazie a Macao. Un tempo colonia e poi territorio d’oltremare portoghese, nel 1999 passò ufficialmente in mani cinesi. Oggi, insieme a Hong Kong, è una regione amministrativa speciale del Dragone ma ha mantenuto il suo status di paradiso offshore per il gioco d’azzardo. Oltre ad ampie autonomie.

Detto ciò, a godere delle manie per il gioco dei cinesi sono stati anche i casinò australiani. Ma non solo. Singapore, per dire, ha legalizzato il gioco d’azzardo nel 2010. Tempo zero e la città-Stato ha aperto due casinò. Indovinate un po’? I profitti, sin qui, sono stati stratosferici. Perfino la Russia, con Vladivostok, letteralmente «dominatrice dell’Oriente», vorrebbe diventare una sorta di Las Vegas russa. Con tutti i servizi del caso per i giocatori cinesi.

La posizione di Xi

La rincorsa ai clienti cinesi, tuttavia, ha generato anche nuove regole e nuove limitazioni, in particolare in Giappone e nella citata Singapore. Non solo, la godopoli generalizzata creatasi negli anni ha subito – secondo logica – una brusca frenata a causa della pandemia. Ancora oggi i confini della Cina sono più o meno sigillati e diversi cittadini cinesi faticano a riabbracciare l’estero quale destinazione per i propri viaggi.

Al discorso, poi, va aggiunta una componente politica. Oltre a offendere le tradizioni cinesi, il gioco d’azzardo è una delle principali voci legate alla fuga illegale di capitali all’estero. E la cosa, va da sé, non piace a Xi Jinping. Il quale, tanto per gradire e in barba alle ampie autonomie di cui teoricamente gode la regione autonoma, ha chiesto ai casinò di Macao di riorientarsi verso lo shopping di lusso, gli eventi e le conferenze di alto livello. La Cina ha pure rafforzato i controlli sul riciclaggio di denaro e stretto la morsa sulle agenzie che aiutano i giocatori d’azzardo a dribblare le autorità fiscali. Il risultato? Chiunque aiuti un cittadino cinese a giocare d’azzardo all’estero, e quindi a nasconderne i guadagni, rischia fino a dieci anni di carcere.

Tant’è che molte case da gioco, adesso, cercano di attirare altri giocatori: giapponesi, sudcoreani e via discorrendo.

Operazione di soft power?

La situazione, insomma, si presta a varie letture. Da una parte, le stesse proprietà cinesi hanno usato l’estero per aprire casinò e la crescita, in alcuni Paesi, è stata evidente. Il numero di licenze concesse in Cambogia, nel dettaglio, è quadruplicato tra il 2014 e il 2019, fa sapere l’Economist. Di più, è aumentato anche il traffico online: molti casinò cambogiani e filippini offrono i propri servizi pure via web, tramite intermediari basati a Hong Kong che permettono a cittadini cinesi di giocare comodamente da casa e, ovviamente, di stare sempre un passo avanti rispetto alle autorità di Pechino (in teoria). Dall’altra, per contro, la Cina sta stringendo sempre di più le maglie attorno ai giocatori. Finora, ha velatamente minacciato di inserire in una lista nera i Paesi che consentono ai cinesi di giocare d’azzardo. Il monito è bastato alla Cambogia per interrompere il rilascio di licenze per i casinò online, nel 2019. Le Filippine, dal canto loro, hanno dichiarato di voler chiudere 175 attività di gioco d’azzardo online e di deportare i cittadini cinesi coinvolti in queste attività. La stessa Cina ha arrestato, nel 2021, qualcosa come 80 mila persone ritenute coinvolte nel gioco d’azzardo transfrontaliero.

Stando ad alcuni esperti e analisti, dietro a queste mosse vi sarebbe la precisa volontà, da parte di Pechino, di controllare meglio l’industria del gioco d’azzardo all’estero. I resort cinesi in Cambogia, ad esempio, sono un modo per esercitare il cosiddetto soft power sulla regione in maniera più ampia. E diretta. C’è perfino chi azzarda scenari più inquietanti: a Dara Sakor, sulla costa cambogiana, dove un tempo c’era solo giungla oggi ci sono diversi casinò, un campo da golf e una pista d’atterraggio di 3 chilometri e passa. Il tutto è gestito da una non meglio precisata azienda cinese. E se un giorno, si domandano appunto alcuni, su quella pista atterrassero anche aerei militari?

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