L'intervista

«Se le Conferenze sul clima servono ancora? Voglio essere ottimista e dire di sì»

Con Antonio Nucci analizziamo quanto discusso e concordato, in extremis, alla COP29 di Baku e gettiamo uno sguardo sulla prossima edizione, che si terrà a Belem in Brasile
©Joshua A. Bickel
Marcello Pelizzari
25.11.2024 09:00

Né bella né, verrebbe da dire parafrasando l’editoriale del collega Giona Carcano, utile. O quasi. La COP29, l’edizione del 2024 della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, è stata caratterizzata da tanti, troppi problemi e da un lungo, lunghissimo tira e molla. Tant’è che l’accordo finale – incentrato sugli aiuti ai Paesi in via di sviluppo per mitigare gli effetti del cambiamento climatico – è arrivato all’ultimo momento utile. Insomma, a Baku, in Azerbaigian, si è discusso parecchio ma si è concluso relativamente poco. Per capirne di più ci siamo rivolti ad Antonio Nucci, dottorando in Comunicazione del cambiamento climatico presso l'Istituto di Media e Giornalismo (IMeG) dell'Università della Svizzera italiana

Innanzitutto, che lezioni dobbiamo trarre da questa COP29? Quanti e quali passi in avanti, concreti o meno, sono stati fatti rispetto alle edizioni precedenti?
«Questa COP si è rivelata più impegnativa e articolata rispetto alla precedente, con trattative prolungate che hanno esteso la conferenza ai “tempi supplementari” e registrato numerose assenze di rilievo. Tra i passi avanti, spunta un aggiornamento delle regole per l’implementazione del “mercato del carbonio”, rese più stringenti, il cui controllo è stato affidato all’ONU stessa. Il passo avanti più importante è, sicuramente, l’accordo sulla finanza climatica: 300 miliardi di dollari all’anno fino al 2035 per aiutare le nazioni in via di sviluppo nella transizione energetica. Il passo indietro più evidente, invece, è che di questa COP non si è parlato quasi per nulla, lasciandola andare quasi nel dimenticatoio». 

L’anno scorso, a Dubai, nel rapporto finale erano stati (finalmente) citati i combustibili fossili. Eppure, anche quest’anno, e al netto che la COP si è tenuta ancora in un Paese tutto fuorché green, le lobby del petrolio erano presentissime fra i tavoli delle discussioni. Possibile?
«Si, certo, e aggiungo che le lobby non solo siedono ai tavoli delle discussioni, ma godono anche di un ruolo organizzativo importante. Basti pensare a Sultan Ahmed al-Jaber, presidente della COP28 di Dubai e amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company. È chiaro che questa presenza non passa inosservata, attirando l’attenzione sia della stampa che segue da vicino questi eventi, sia delle numerose ong presenti alle COP. Di certo, questa attenzione contribuisce a tenere sotto controllo l’influenza che le lobby esercitano durante le negoziazioni, anche se, alla fine, è difficile valutare appieno il loro peso senza essere direttamente coinvolti in quei tavoli decisionali».

Una volta di più, intanto, appare chiaro come gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi siano superati, nella misura in cui ci troviamo già di fatto in un mondo la cui temperatura media globale supera gli 1,5 C rispetto all’era pre-industriale. Che cosa significa, che abbiamo preso tempo a prevenire invece di concentrarci sulle misure di mitigazione? E, ancora, che la politica non ha saputo organizzare uno sforzo concreto e condiviso?
«Abbiamo perso tempo a parlare senza concretizzare, è la triste verità. Sono passati quasi 10 anni dagli accordi di Parigi del 2015 e quello che è stato fatto è chiaramente troppo poco, specialmente alla luce del tempo che rimane per provare a mitigare il problema. La questione è che il clima è sempre più una questione politica: uno strumento aggiunto alla lunga lista di promesse quasi mai esaudite e che, assieme al resto, può essere ignorato. Scienziati e attivisti sono stati fatti passare per Cassandra mentre ancora si discute e si agisce per “salvaguardare quello che c’è oggi senza dare importanza al fatto che si sta rinunciando al domani”. “Oggi” vuol dire che, se le cose dovessero rimanere come sono, si prevede un innalzamento della temperatura media globale di 2.7º C. Il limite che si cercava di evitare con Parigi era 1.5º C». 

A tal proposito, resta centrale il discorso fra chi inquina e chi, invece, subisce i danni di questo inquinamento. La voce del cosiddetto sud del mondo, che secondo logica pretende di essere compensato per le emissioni altrui, è riuscita a farsi sentire abbastanza a questo giro?
«Del fondo si è parlato di più rispetto alle precedenti edizioni e sembra si sia arrivati a una soluzione, nonostante ci sia ancora molto divario tra le richieste dei Paesi del sud del mondo e ciò a cui si è effettivamente arrivati. India e Nigeria, in particolare, non hanno accolto bene la cifra concordata. Come per ogni cosa però, soprattutto quando si parla di questo tipo di negoziazioni, è necessario attendere che le promesse vengano mantenute. Per adesso si è giunti a un accordo che si aggira attorno ai 300 miliardi l’anno fino al 2035, molto lontani dai 1.000 miliardi all’anno richiesti dai Paesi in via di sviluppo, ma è già qualcosa. Questa cifra sarà pagata sia dalle nazioni “sviluppate” sia dalle corporazioni, unendo pubblico e privato. Tra i Paesi che dovranno obbligatoriamente versare questa cifra però mancano, ad esempio, la Cina e l’Arabia Saudita, considerati loro stessi ancora “Paesi in via di sviluppo”. Per loro ci sarà la possibilità di partecipare a questo fondo su base volontaria, con vincoli quindi molto diversi». 

Sulla carta, l’India si è posta degli obiettivi molto ambiziosi. Tuttavia, questi traguardi sono ancora lontani

A proposito di emissioni, la COP29 si è svolta mentre uno dei grandi Paesi emettitori, l’India, è stato avvolto da una cappa di terribile smog. Quanti e quali sforzi sta facendo Dehli per la transizione energetica? E quanto il blocco BRICS sta facendo per il clima?
«Sulla carta, l’India si è posta degli obiettivi molto ambiziosi: diminuire l’intensità delle emissioni (la quantità di gas serra emessi per ogni unità di prodotto economico) del 45%, rispetto ai livelli del 2005, entro il 2030 e aumentare l’uso di fonti energetiche rinnovabili, o non fossili, fino a raggiungere il 50% del totale entro il 2030. Tuttavia, questi traguardi sono ancora lontani, e le giornate di smog, spesso protagoniste sulle pagine dei giornali, rappresentano solo una delle conseguenze delle difficoltà nel raggiungerli. Un simile discorso può essere fatto anche per gli altri Paesi dei BRICS, dove torna spesso uno dei temi più discussi all’interno delle Conferenze delle Parti: “voi, in Occidente, siete diventati ricchi sfruttando i combustibili fossili. Perché noi non possiamo fare lo stesso?». 

Si dice spesso che senza Stati Uniti e Cina e senza una collaborazione fra questi due Paesi poco o nulla può essere fatto a livello globale. L’elezione di Donald Trump, a occhio, difficilmente può avvicinare Washington a Pechino sul fronte della collaborazione per il clima e, in generale, potrebbe tradursi in una politica (quasi) anti-clima. Basti pensare all’annunciata intenzione di uscire dall’Accordo di Parigi. 
«Trump non ha mai nascosto il suo totale disinteresse verso le questioni climatiche. Anzi, sia nel corso della sua presidenza 2016-2020, sia nelle promesse elettorali per quella appena vinta, ha cancellato una serie di leggi volte alla protezione ambientale e tolto vincoli alla trivellazione in vari luoghi, fino ad allora protetti, negli Stati Uniti. Basti pensare che, nel corso della sua ultima campagna elettorale, ha promesso di smantellare l’EPA, il Dipartimento di Protezione Ambientale degli Stati Uniti. La Cina, dal canto suo, sta vivendo una crescita molto ridotta rispetto alle aspettative e questo sarà sicuramente bilanciato da scelte volte a tutelare il proprio mercato. Sicuramente la situazione cinese è migliorata se pensiamo a 20 anni fa, su questo non c’è dubbio, ma rimane pur sempre un Paese di un miliardo e mezzo di abitanti dove viene prodotto il 30% della produzione mondiale. Senza la collaborazione seria di queste due super potenze, è triste dirlo, ma ben poco si può fare». 

In Svizzera, sul fronte climatico, è forte la critica al «ministro» dell’energia Albert Rösti. Che giudizio possiamo dare alla politica energetica svizzera?
«La Svizzera ha l’opportunità, e la responsabilità, di fare di più per proteggere la propria straordinaria bellezza naturale e biodiversità, diventando così un modello da seguire a livello globale. I cittadini svizzeri, spesso chiamati a esprimersi su temi cruciali, hanno bisogno di informazioni chiare e accurate per poter prendere decisioni consapevoli. La recente iniziativa per la biodiversità, quella per il clima e il referendum sul potenziamento della rete autostradale dello scorso fine settimana sono esempi significativi di quanto sia fondamentale che la popolazione sia ben informata e possa scegliere con coscienza. È un peccato pensare che, anche a casa nostra, la crisi climatica sia affrontata e trattata quasi sempre come una questione politica e non come invece meriterebbe, soprattutto da chi ha la responsabilità diretta». 

Domanda apparentemente banale: ma queste COP sono davvero utili?
«Voglio provare a essere ottimista e rispondere di sì. Se non altro, perché le COP rappresentano un'occasione unica di confronto tra nazioni con interessi spesso in contrasto. Sono tra i pochi momenti in cui il clima diventa protagonista, sottraendosi al rischio di essere relegato a tema marginale o manipolato per scopi più vicini a una campagna elettorale senza fine. Mi riferisco ovviamente ai politici, ma loro non sono gli unici invitati. Le COP possono diventare un'opportunità per compiere veri passi avanti, sotto gli occhi vigili della comunità internazionale. La chiave è che questi riflettori restino accesi e che continuino a illuminare ciò che conta davvero».

Ci sarebbe davvero tanto da dire. In sintesi, la guerra porta con sé un terribile costo non solo in termini di vite umane, ma anche in termini ambientali: le emissioni dovute alla produzione di armamenti e allo spostamento di truppe, la distruzione di campi agricoli e agglomerati urbani, che a loro volta portano a carenza di beni alimentari e a fiumi di persone in fuga dalle zone di conflitto

Si parla poco, purtroppo, dell’impatto sul clima delle guerre. Che cosa si può dire al riguardo?
«Ci sarebbe davvero tanto da dire. In sintesi, la guerra porta con sé un terribile costo non solo in termini di vite umane, ma anche in termini ambientali: le emissioni dovute alla produzione di armamenti e allo spostamento di truppe, la distruzione di campi agricoli e agglomerati urbani, che a loro volta portano a carenza di beni alimentari e a fiumi di persone in fuga dalle zone di conflitto. Si può parlare del costo per recuperare queste zone una volta che il conflitto si è concluso e al cambiamento di destinazione di tutta una serie risorse necessarie che invece sono destinate al finanziamento del conflitto. È un costo elevato che spesso viene messo in secondo piano».

La COP30 si terrà a Belem, in Brasile, alle porte dell’Amazzonia. Una scelta certo non casuale e più in linea con le reali necessità del pianeta, al di là del fatto che il Brasile è fra i più grandi produttori di energie fossili al mondo. 
«Il Brasile è uno dei più gradi produttori di energie fossili al mondo, ma è anche uno dei polmoni del pianeta grazie alla foresta amazzonica. È inoltre uno degli Stati in cui la salvaguardia ambientale ha avuto un ruolo di rilievo nel corso dell’ultima campagna elettorale: le disastrose politiche ambientali di Bolsonaro, che apertamente supportava il disboscamento della foresta amazzonica, hanno avuto un peso, per quanto difficile da calcolare, nella scelta dei brasiliani di fermarsi e procedere nella direzione opposta. Basti pensare che la ministra dell’Ambiente brasiliana, Marina Silva, ha un passato da attivista ambientale ed è proprio grazie a lei che oggi si hanno numerose zone protette in Amazzonia. È difficile essere ottimisti, ma se vogliamo esserlo il Brasile è un buon posto da cui iniziare».