«Si fa strada l'idea di un compromesso»
Mosca conduce lo scontro armato in una posizione di indubbio vantaggio militare. Finora tuttavia non è bastato per aprire il tavolo delle trattative. Cosa deve accadere? Il parere di due esperti.
1. Militarmente come sta evolvendo il conflitto?
«È innegabile che i russi stiano incontrando più difficoltà di quanto preventivato e che la resistenza ucraina si sia dimostrata più efficace», osserva Paolo Magri, vicepresidente esecutivo dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI). «È altrettanto vero che i russi al momento non stanno affatto producendo il massimo dello sforzo bellico di cui dispongono e che – speriamo – non vorranno mai impiegare». Sulla falsariga la lettura di Giampiero Gramaglia, consigliere dell’Istituto Affari Internazionali di Roma. «Dobbiamo tuttavia constatare che il Cremlino, pur andando militarmente al risparmio, si è assicurato il controllo del Donbass e, attraverso l’assedio di Mariupol, si è garantito anche una continuità territoriale con la Crimea. Strategicamente - tenendo sotto scacco Odessa - il Cremlino controlla la parte sud del Paese, impedendo che dal mare giungano armi e rifornimenti».
2. Se dovessero cadere le grandi città, come Kiev, Kharkiv, Mariupol, che cosa accadrebbe?
«Non tutte le città hanno il medesimo peso», osserva Magri. «La caduta di Kiev significherebbe un lento avviarsi verso la resa finale. Le altre città, invece, avrebbero un peso minore nell’indicare una sconfitta eventuale dell’Ucraina». Secondo Gramaglia, tuttavia, «al momento la Russia non sembra interessata ad ingaggiare uno contro nelle grandi città. Le truppe sono ferme a 30 chilometri da giorni e non accennano a proseguire». Strategicamente , infatti, l’assedio è la carta migliore da giocare anche sul fronte diplomatico. «Mentre entrare in città significa esporsi a una situazione di guerriglia molto più insidiosa».
3. Nei prossimi giorni, forse già domani, potrebbero aver luogo nuovi colloqui tra Russia e Ucraina. Cosa dobbiamo attenderci?
«L’intensificarsi delle operazioni militari e delle minacce reciproche possono essere un segnale di un clima che si deteriora ma anche un segnale che non siamo lontani da incontri negoziali un po’ più fattivi rispetto al nulla che ha preceduto», osserva Magri per il quale, tuttavia, ciò non significa che ci troviamo vicini a una soluzione rapida e definitiva della crisi: «È più corretto pensare a un tregua, che farebbe comodo a entrambi gli schieramenti». Per Magri potrebbe assumere la forma di una stabilizzazione del conflitto «che non vuole dire arretramento russo, né accettazione da parte ucraina di qualsiasi condizione sul futuro del Paese». Al di là dei toni robusti usati dalle diplomazie, prosegue Magri, sembra tuttavia farsi strada, sia in Russia sia in Ucraina, l'idea che si debba passare dal dialogo, dal compromesso e dal riconoscimento di un negoziatore. A questo proposito Gramaglia ricorda come i russi - secondo le ultime dichiarazioni del presidente ucraino Zelensky - «non procedono più per asserzioni di principi».
4. A quali condizioni allora Russia e Ucraina inizieranno effettivamente a trattare?
Di fatto, sostiene Gramaglia, «l’impressione è che la Russia abbia a portata di mano i suoi obiettivi» e che le azioni militari servano sostanzialmente a esercitare una pressione sugli ucraini, affinché Kiev negozi sulle richieste avanzate da Mosca, ossia il riconoscimento della Crimea e dei territori del Donbass, oltre all’ottenimento di garanzie sulla neutralità dell’Ucraina rispetto alla NATO». Queste sono le condizioni russe e secondo Gramaglia, giocoforza, l’Ucraina dovrà tenerne contro. Anche perché questi territori, di fatto, oggi sono in mano russa: «Gli ucraini, se vorranno sbloccare le trattative, dovranno riconoscere la situazione sul terreno come base di partenza per il negoziato». Più sfumata la posizione di Magri, il quale fa notare che: «Il fatto di aver ottenuto militarmente questi obiettivi non significa che le trattative siano meno complicate. Anche nel 2014 l’Ucraina non ha riconosciuto né la Crimea né le repubbliche del Donbass. Sono poi seguiti otto anni di conflitto a bassa intensità. Oggi, un’opzione di questo tipo, con un conflitto a bassa intensità, potrebbe costituire una forma di stabilizzazione a breve termine».
5. Diversi Paesi si stanno proponendo come mediatori. In cima alla lista si profila Israele. Quali i motivi?
«Gerusalemme piace agli ucraini. Zelensky è ebreo e nella società ucraina c’è una forte componente ebrea», spiega Gramaglia. «E non dispiace neppure a Putin. I rapporti tra Israele e la Russia, nonostante le ingerenze in Medio Oriente sono buoni». La lista dei mediatori si allunga ogni giorno, osserva dal canto suo Magri: « Anche per protagonismo e opportunismo di politica interna. Non sappiamo ancora chi sarà il negoziatore, ma questo concetto è importante perché un negoziato senza negoziatore non ha mai prodotto alcun risultato». Il punto è arrivare in tempi rapidi a una figura credibile per entrambi, che possa imprimere un’accelerazione alle trattative. Secondo Gramaglia, tuttavia, «Israele, da solo, non può bastare: serve un riconoscimento internazionale».
6. L’attacco di Leopoli e della base militare a 25 chilometri dalla Polonia rappresenta un'ulteriore escalation nelle relazione tra Russia e la NATO?
«Strategicamente la Russia ha attaccato una base militare e, in tempo di guerra, è l’attacco più scontato», osserva Gramaglia. «È vero che la base si trova a soli 25 chilometri dall’UE, ma è pur sempre in territorio ucraino». Dal punto di vista militare, è un obiettivo sensibile ma assolutamente in linea con la strategia bellica. Sull’ipotesi che nella base vi fossero militari della NATO, Gramaglia taglia corto: «Non abbiamo prove, ma dubito fortemente che militari NATO siano ancora in Ucraina, armamenti sì, ma al momento non abbiamo notizie di perdite di militari NATO».