«Si preoccupò soprattutto della secolarizzazione dell’Europa, è stata la sua croce»

Negli ultimi 10 anni, vissuti intenzionalmente nell’ombra, Benedetto XVI aveva scelto di assolvere a un’unica missione: quella di «monaco orante». La sola possibile, per un papa emerito che non volesse in alcun modo sovrapporre la propria figura a quella del pontefice regnante. Simbolica, in questo senso, anche la scelta di «togliersi le scarpe» per indossare i sandali, testimonianza ulteriore del passo indietro compiuto in modo definitivo all’atto delle dimissioni.
La morte di Joseph Ratzinger apre ovviamente, e in primo luogo, il capitolo del giudizio storico sul suo operato.
Il 18 dicembre scorso, in un’intervista al quotidiano spagnolo Abc, papa Bergoglio aveva definito un «santo» il suo predecessore, un «uomo di alta vita spirituale», e aveva aggiunto di sentirsi sempre «edificato» dal suo sguardo trasparente. Ma chi è stato, veramente, Benedetto XVI? Qual è stato il suo ruolo nella Chiesa del XX secolo?
Le riflessioni degli storici
«Ratzinger è diventato papa in un momento difficile - dice al Corriere del Ticino Roberto Morozzo della Rocca, ordinario di Storia contemporanea a Roma Tre e componente del comitato scientifico della Rivista di storia della Chiesa in Italia, edita dalla Pontificia Università Antonianum - Non era facile succedere a Giovanni Paolo II, il quale aveva condotto il proprio pontificato con energia e con una grande carica carismatica, ma aveva anche lasciato coperte molte problematiche interne che Ratzinger fu costretto invece a dover affrontare e risolvere. È stato un cireneo, ha portato su di sé pesi giganteschi».
Al contrario di Woytila e anche di Bergoglio, dice ancora il professor Morozzo, «Benedetto si preoccupò soprattutto della secolarizzazione dell’Europa, tentando di frenarla. È stata la sua croce».
«Il suo - aggiunge lo storico romano - è stato un pontificato di transizione e di riflessione interna, pervaso da un processo di evangelizzazione profondo e documentato, tipico di un grande intellettuale, di un grande professore capace di toccare i cuori di tanti in modo non estemporaneo». Di certo - e diversamente da Giovanni Paolo II che, in buona fede, le considerava vicende marginali - Ratzinger ebbe «piena consapevolezza della “corruzione” morale della Chiesa. L’aveva vista molto da vicino, guidando per 25 anni il Sant’Uffizio».


Le accuse per gli scandali
Anche per questo, soltanto poche settimane fa, Benedetto XVI aveva annunciato di volersi «difendere» dall’accusa di «comportamenti erronei» per non aver agito in «quattro casi» quando guidava la diocesi bavarese, dal 1977 al 1982. Accusa seguita a una denuncia sporta al Tribunale provinciale di Traunstein subito dopo la pubblicazione del rapporto redatto a gennaio dallo studio legale «Westpfahl Spilker Wastl» su 497 casi di abusi compiuti nella Chiesa di Monaco.
Affermare perciò che le dimissioni di Benedetto XVI siano state conseguenza inevitabile della crisi aperta dagli scandali sessuali venuti a galla in molte diocesi potrebbe essere sbagliato.
Secondo Paolo Cozzo, associato di Storia del Cristianesimo e delle Chiese all’Università di Torino, «imputare le ragioni della rinuncia alla crisi provocata dall’emersione di scandali e di abusi sessuali pare una valutazione riduttiva e, per certi versi, fuorviante. Se certamente quella drammatica questione ha segnato la fase finale del pontificato di Benedetto XVI, credo che alla base della decisione assunta nel 2013 vi sia stata la consapevolezza che per condurre la “nave di Pietro” in un frangente particolarmente complesso e difficile, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale - non dimentichiamo mai che il papa, oltre a essere la massima autorità della Chiesa cattolica, è anche un capo di Stato - occorresse un timoniere dotato di quelle forze che Joseph Ratzinger non sentiva più di avere».
Nessuna discontinuità
Resta da chiedersi se Benedetto sia stato più un innovatore o più un conservatore e quanto traumatico sia stato il passaggio tra il suo pontificato e quello di Francesco. «Innovazione e conservazione sono categorie difficili da applicare a una realtà, come la Chiesa, che fa della trasmissione della Tradizione una delle sue missioni, forse la più importante - dice ancora Cozzo - Lo sforzo risulta ancora più arduo rispetto a una figura, quella di Ratzinger, che ha attraversato da sacerdote, vescovo e cardinale europeo, la seconda metà del ’900, vivendo in prima persona il Concilio Vaticano II e la complessità della sua concreta applicazione. Per questo credo che dal suo magistero emerga piuttosto la necessità di superare la dicotomia fra due polarità, innovazione e conservazione, che gli appaiono estranee alla natura della Chiesa e al suo ruolo nella storia. Ratzinger è stato il teologo di Wojtyla. Gli elementi di continuità tra i due pontificati sono forti. Ma sul piano propriamente teologico, Bergoglio non ha assunto posizioni di discontinuità. Quel che è cambiato, percepito come diverso, è lo stile, l’approccio mediatico, la strategia comunicativa: elementi che rispecchiano personalità diverse».