Il reportage

Siamo stati al mega-comizio di Donald Trump al Madison Square Garden

E abbiamo parlato con i «MAGA people» in fila per vedere l'ex presidente degli Stati Uniti: «Conta solo far tornare Don là dove merita a Washington»
© AP/Evan Vucci
Davide Mamone
28.10.2024 13:00

Se un osservatore esterno arrivasse negli Stati Uniti oggi e, con un minimo di conoscenza del Paese, guardasse al calendario dei comizi di Donald Trump dei prossimi giorni, potrebbe giungere a due conclusioni diametralmente opposte: o l’ex presidente è estremamente sicuro di vincere, oppure sta completamente perdendo il contatto con la realtà. Manca una settimana esatta alla notte elettorale del 5 novembre, e Trump si sta preparando per una routine diversa dal solito: non la girandola di comizi nei 7 Stati chiave in cui si decideranno le elezioni (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, Nevada, Georgia e North Carolina, ndr) ma due tappe in New Mexico (giovedì) e in Virginia (sabato), Stati in mano democratica.

Due comizi inusuali a cui si aggiunge quello storico di domenica scorsa nella ultrademocratica Manhattan, a New York, a cui il Corriere del Ticino era presente. Un appuntamento che ha attirato 20 mila persone, costringendone fuori almeno altrettante per mancanza di posti, in quel Madison Square Garden che ha ospitato pagine di storia degli USA.

MAGA People

Le file in fervente attesa di entrare che si sono formate domenica lungo la 32.esima e la 33.esima strada, intersecandosi con la Sixth Avenue, si sono trasformate, per un pomeriggio, in un vivido affresco di cosa sia diventato il movimento Make America Great Again (MAGA) da quel 16 giugno 2015, il giorno in cui Trump scese dalle scale mobili del suo palazzo per annunciare la corsa alla Casa Bianca. Quello che un tempo era un movimento disordinato, di pancia e di reazione, pronto a votare un candidato apparentemente estraneo al cosiddetto establishment, nove anni dopo è diventato un popolo devoto e organizzato, che segue il tycoon ovunque come fosse una popstar. Quella che un tempo era un’audience quasi esclusivamente bianca e lontana dagli Stati “blu” più progressisti, ora sembra voler includere ogni etnia, andare in ogni Stato e coprire ogni città.

In fila c’è Jessica Sosa, un’avvocatessa argentina che lavora alle Nazioni unite, appena diventata cittadina americana, che voterà Trump perché lei, «al contrario degli immigrati illegali che ci invadono al confine con il Messico», ha vissuto per 23 anni a New York «cambiando cinque visti e rispettando sempre le regole».

Mark e George, due padri di famiglia che iniziano a chiacchierare tra loro e con i vicini di fila, sono arrivati al comizio di Trump da due parti diverse del Paese: uno dalla California, l’altro dall’Illinois. Entrambi vogliono che il miliardario newyorkese torni alla Casa Bianca perché «le uova e la carne costano troppo da quando Joe Biden è presidente».

E poi c’è Luisa Peña, una donna sulla sessantina originaria della Repubblica Domenicana, trasferita con i genitori quando aveva un anno. «Kamala è lì da tre anni e mezzo e che cosa ha fatto? Ho votato Trump nel 2016, l’ho rivotato nel 2020 e lo rivoto martedì - dice al Corriere del Ticino - Abbiamo bisogno di persone forti, non c’è spazio per la debolezza». Peña ha una storia particolare: è una sopravvissuta dell’attacco terroristico dell’11 settembre, quando all’epoca lavorava come addetta delle pulizie in una delle due Torri Gemelle e uscì appena in tempo prima dei crolli. «Mi sono avvicinata ai Repubblicani allora e non li ho più lasciati - dice - Ma gli altri membri della mia famiglia che vivono nel Bronx lo votano quest’anno per la prima volta».

Insulti e contraddizioni

E sì che il partito repubblicano di oggi, sotto il totale controllo di Trump e della sua famiglia - la nuora di Donald, Lara, ne è diventata la co-chair - è lontanissimo dai conservatori che hanno attirato il primo voto di Peña. Anzi: le critiche verso quei repubblicani sembrano essere tanto aspre quanto quelle a Kamala Harris e ai democratici.

La scaletta del Madison - là dove Muhammad Ali vinse la «battaglia del secolo» contro Joe Frazier, Elvis Presley fece sgolare 80 mila fan nel 1972 e Marylin Monroe cantò Happy Birthday, Mr. President a John F. Kennedy nel 1962 - non ha lasciato spazi ai dubbi. Ad anticipare l’ex presidente ci sono stati infatti l’ex senatrice democratica Tulsi Gabbard e l’ex candidato Robert F. Kennedy, a cui Trump ha promesso un posto nell’amministrazione in cambio del suo endorsement.

Subito dopo , l’ex consulente trumpiano Stephen Miller, con la sua retorica estremista e anti-immigrazione («L’America è solo degli americani», ha detto, lui che è nipote di rifugiati dalla Bielorussia) e il multimiliardario Elon Musk, che ha promesso tagli da 2 mila miliardi di dollari alla spesa pubblica qualora Trump dovesse nominarlo a capo di una nuova agenzia governativa contro gli sprechi. C’è stato anche spazio per il razzismo, come quello del comico Tony Hinchliffe, conduttore di un podcast molto amato negli ambienti conservatori, il quale ha definito Puerto Rico «un’isola nel mezzo dell’oceano piena di immondizia» (due ore dopo, la campagna di Trump ne ha preso le distanze). E c’è stato anche Hulk Hogan, l’ex wrestler che ha promesso ai fan trumpiani di fronte a lui il controllo rigido dei confini e un carrello della spesa meno salato.

Solo quattro ore dopo, sulle note di God Bless the USA di Less Greenwood, introdotto a sorpresa dalla moglie Melania, è arrivato The Donald, accolto dalle urla entusiaste del suo pubblico come lo fu Elvis cinque decadi fa.

Trunp ha prima ringraziato la moglie, «che sarà presto, di nuovo, la First Lady», ha detto. Poi ha promesso un credito di imposta per chi ha bisogno di assumere badanti di famiglia. E snocciolato a un pubblico in visibilio la solita agenda MAGA, fatta di «ritorno del sogno americano» e di «fine dell’immigrazione illegale».

Osservando la folla oceanica di Manhattan e la disinvoltura con cui il popolo trumpiano sfoggia le sue magliette e i suoi gadget lungo le strade dove un tempo sarebbe stato impensabile, verrebbe da pensare che la competizione sia finita. Ma in un’epoca in cui la dimensione dei comizi racconta solo una minuscola parte della storia e i sondaggi esprimono tutto e il contrario di tutto, anche pomeriggi come quello di New York sembrano predire poco. E diventare, di più, una questione privata tra il candidato che cerca di riprendersi d’orgoglio la città che lo ha gettato via e la città stessa. Nel mezzo, restano elettori come Peña e la sua famiglia, finiti a far parte della base di un movimento che fino a 9 anni fa li considerava estranei. Ad esempio: lei, rimasta al nostro fianco per tutto il comizio, non si sente offesa da battute come quelle di Hinchliffe? «Mi interessa nulla perché lui conta nulla - dice - Conta soltanto far tornare Donald là dove merita, a Washington».

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