Sindrome dell'Avana: storia di un rebus fra nemici invisibili e armi futuristiche
Mal di testa, vertigini, nausea e affaticamento, confusione, difficoltà di concentrazione, insonnia e dolore alle orecchie. Chi non ha mai sperimentato, almeno una volta nella propria vita, uno di questi comuni malesseri? Anzi, chi non ne ha mai sofferto almeno una volta al mese, se non a settimana? Sembrano, questi, sintomi sui quali si sorvola facilmente e su cui certamente lo Stato non ha voce in capitolo. Ma non è così se, all’improvviso, essi si uniscono per diventare una «epidemia» in grado di intaccare una specifica, ristrettissima, categoria di popolazione: quella dei diplomatici e agenti dell’intelligence. L’insorgere, alla fine del 2016, di una serie di problematiche sanitarie fra il personale dell’ambasciata statunitense a Cuba ha, in breve tempo, sollevato a Washington un vero e proprio vespaio. Di più: il rapido diffondersi delle stesse problematiche a livello mondiale, sempre in ambasciate e consolati americani, ha scatenato il panico oltreoceano: «Chi è il nemico? Chi ci sta bersagliando, e con quale arma?».
Da epidemia a pandemia
Tutto, dicevamo, ha avuto inizio nella capitale cubana, dove una parte del personale statunitense attivo all’ambasciata ha cominciato a manifestare un’ampia serie di malesseri.Nulla di troppo strano, se non fosse che in più casi i pazienti hanno segnalato di aver notato, nei pressi della propria casa e in piena notte, prima nel manifestarsi dei sintomi, un misterioso e ripetitivo suono acuto. Il dettaglio ha presto spinto le vittime, perlopiù agenti della Central Intelligence Agency (CIA) e qualche diplomatico statunitense e canadese, a pensare di essere vittima di un attacco sonico. Inizialmente riscontrabile solo nel piccolo e coeso gruppo di personale diplomatico presente a Cuba (statunitensi e canadesi lavorano a stretto contatto sull’isola), quella che è stata poi definita come “Sindrome dell’Avana” si è diffusa a gran ritmo in tutto il mondo, rapida quasi quanto la notizia stessa dei primi casi. E se prima del 2016 nessun corpo diplomatico aveva mai segnalato simili problemi, a fine 2017 (nei quattro mesi successivi all’emergere della vicenda a livello pubblico), il malessere aveva già interessato ambasciate statunitensi sparse in ogni continente. A settembre dello stesso anno gli Stati Uniti hanno deciso di ridurre la presenza di personale nella sede cubana al minimo indispensabile per svolgere le funzioni diplomatiche e consolari fondamentali, mentre le autorità locali (dopo aver negato ogni coinvolgimento) si sono dette pronte alla piena collaborazione per venire a capo del mistero.
Studi e dati contrastanti
All’argomento sono state dedicate decine di studi frequentemente promossi dallo stesso Governo statunitense. L’obiettivo dichiarato? Dare un nome al nemico. Ma col passare dei mesi e degli anni, risultati e teorie proposti dai differenti rapporti sono apparsi confusi e, spesso, contrastanti. Da una parte, gli studi del Journal of the American Medical Association (2018) e delle National Academies of Sciences, Engineering and Medicine (2020), che pur ammettendo di non saper ancora fornire dati definitivi, parlavano di «radiazioni a microonde» o «attacchi sonici» (vedi box sotto) come della causa più plausibile dei «danni cerebrali e perdita di udito» da loro riscontrati fra alcuni pazienti. Idea confutata da molti esperti e studi. Come quello dell’FBI, divenuto pubblico nel 2018 in seguito a una fuga di notizie, nel quale si sottolineava di non aver trovato alcuna prova di ipotetici attacchi con armi soniche. O lo studio di JASON (gruppo di scienziati che fornisce consulenza al Governo su materie sensibili), terminato nel 2018 ma desecretato solo nel 2021, che definiva come «altamente improbabile» il coinvolgimento di simili futuristici armamenti.
L’ipotesi psicologica
Fra i detrattori di teorie riguardanti armi soniche o a microonde, anche Robert Bartholomew (sociologo specializzato nei fenomeni d’isteria di massa) e il neurologo Robert Baloh (tra i massimi esperti mondiali del sistema vestibolare). La teoria dei due, raccolta nel libro Havana Syndrome: Mass Psychogenic Illness and the Real Story Behind the Embassy Mystery and Hysteria, punta a una nuova via: quello della malattia psicogena di massa (MPI). Secondo Bartholomew e Baloh, la psiche giocherebbe un ruolo fondamentale nel diffondersi della “sindrome”. Saremmo dunque in presenza di un effetto ‘‘nocebo’’ (il contrario del più famoso placebo). La notizia di ipotetici attacchi avrebbe causato una sorta di isteria di massa in grado, inizialmente, di contagiare e provocare i sintomi nelle persone a stretto contatto dei primi casi (stanziati a Cuba) e, poi, anche gli altri diplomatici sparsi in tutto il mondo e venuti a conoscenza della problematica. Del resto, a detta dei due, le analisi effettuate sulle vittime non mostrerebbero alcun segno di danni cerebrali o perdita di udito, semmai anomalie cerebrali (naturalmente presenti in piccole percentuali della popolazione, specialmente quelle esposte a forti stress) e dolori ai timpani. Insomma, una diagnosi molto diversa rispetto alle precedenti, e che non prevedeva la presenza di alcun nemico. I due non sono gli unici ad aver sostenuto tale ipotesi, emersa tardivamente anche a causa della secretazione di studi concordanti. Una teoria ‘‘psicologica’’, questa, che Pamela Spratlen, incaricata dal Dipartimento di Stato di seguire le indagini sulla Sindrome dell’Avana, non si era sentita di escludere a priori nel 2021: posizione che aveva scatenato l’ira delle vittime e convinto la donna a dimettersi.
«Nessun nemico»
Perché la teoria di Bartholomew e Baloh è importante? Mentre nel 2021 lo sguardo di Washington si era rivolto più a est, vedendo nella Russia il principale indiziato per gli ipotetici attacchi, la pubblicazione a gennaio 2022 di una valutazione provvisoria da parte della CIA ha in sostanza accreditato la tesi sull’MPI. E cancellato l’ombra di un potenza straniera sui misteriosi malesseri.
Le conclusioni del rapporto? La sindrome, ammette la Central Intelligence Agency «non è il risultato di una campagna globale sostenuta da parte di una potenza ostile». Secondo l’analisi proposta dall’agenzia di spionaggio civile del Governo statunitense, infatti, la maggior parte dei casi registrati (oltre mille) avrebbe origini naturali (tra le quali anche «l’ansia»). Solo un piccolo numero è rimasto senza risposte sicure in assenza di dati sufficienti. Ma è davvero così o Washington sta mascherando la propria inconcludenza nel trovare, finalmente, il nemico? E perché, se la soluzione era così ‘‘semplice’’, sono emersi studi così discordanti?


L'intervista
Per approfondire la questione, parliamo con Robert Bartholomew, sociologo, giornalista e autore di studi specifici. Membro del Committee for Skeptical Inquiry, da sei anni analizza da vicino la «sindrome dell’Avana».
La pubblicazione della CIA ha sostanzialmente dato credito all’ipotesi di malattia psicogena di massa (MPI). I malesseri registrati a Cuba e nel mondo, secondo la sua teoria, sono dunque tutti riconducibili a questo fenomeno?
«No, anzi. Va evidenziato come la maggior parte dei casi non sia da ricondurre alla MPI. Quanto avvenuto a Cuba, e specialmente fuori da Cuba, è stato molto più spesso una semplice ridefinizione dei propri sintomi. Mi spiego: chi, tra i diplomatici, si alzava al mattino con mal di testa, stanchezza, o sentiva un rumore in lontananza, credeva subito di essere vittima di un attacco sonico. Ma questi sintomi sono così vaghi e comuni che la maggior parte degli esseri umani li sperimenta ogni mese per tutta la vita. Nei casi accertati di MPI, invece, la certezza di essere sotto attacco ha direttamente causato l’insorgere di sintomi. Ma sono casi più rari».
Il report della CIA arriva troppo tardi?
«È veramente scioccante vedere come il Governo abbia gestito la faccenda. Per anni, sia sotto l’amministrazione Trump sia sotto quella Biden, abbiamo assistito a un tentativo deliberato di intorbidire le acque. Washington ha cercato di rendere tutto ciò un caso più grande di quanto in realtà non fosse».
Perché?
«Perché ammettere l’errore è imbarazzante. Le autorità hanno speso decine di milioni di dollari, sprecato anni di ricerca, incolpato potenze straniere e innervosito per nulla la popolazione. Ora penso che la sindrome dell’Avana, come fenomeno inspiegabile, sia morta. Diventerà famosa come uno dei più straordinari casi di malattia psicogena di massa nella storia della scienza e sarà studiato nelle facoltà di medicina come un esempio di conduzione errata di un’investigazione. Ed era ora. Ma sarebbe dovuto succedere prima».
Che parte ha giocato la stampa nel diffondersi delle altre teorie?
«Nella mia carriera ho lavorato a lungo nel giornalismo, in particolare in radio per la CNN. E, ripeto, trovo scioccante vedere come i media abbiano gestito la faccenda. Posso capire la confusione iniziale. Parte del problema è che la maggioranza dei giornalisti non è esperta di malattie psicogene di massa, effetto nocebo, armi soniche, microonde, e così via. È servito tempo per trovare una spiegazione, anche perché le questioni da affrontare erano numerosissime. Forse però si sarebbe dovuto arrivare a queste conclusioni più rapidamente. Nel 2017 ho pubblicato un primo articolo sulla Royal Society of Medicine dicendo praticamente ciò che oggi è ormai riconosciuto: quella dell’Avana era un’isteria di massa. Allora nessuno mi credette perché da tempo si era diffusa la falsa informazione che fra le vittime fossero stati registrati anche danni cerebrali e perdita di udito (sintomi che non si verificano con malesseri psicogeni, ndr). Ma sarebbe bastato analizzare meglio le prove per capire come tale convinzione fosse errata. Nessuno dei pazienti, ad esempio, ha riportato danni cerebrali. Si è sempre parlato di “anomalie”, e non è la stessa cosa. La stampa americana e internazionale sono da incolpare per il diffondersi di false notizie allarmistiche. Hanno diffuso rapporti unilaterali facendoli suonare come una realtà assoluta. Perché? Le possibilità sono due: l’incompetenza giornalistica o il tentativo di suscitare scandalo, alimentare click e visualizzazioni. Penso sia la seconda, e credo sia una cosa triste.
Che cosa ha spinto altri scienziati a ignorare simili prove, se erano davvero così evidenti?
«In due parole: ‘‘cattiva scienza’’ (bad science, ndr). Vi sfido a contattare il Journal of the American Medical Associations (JAMA) per vedere se supportano ancora gli studi del 2018 e 2019 sulla sindrome dell’Avana. Non lo faranno, si trincereranno dietro a un no comment (da noi contattata, JAMA non ha fornito una risposta, ndr). Perché? Perché era cattiva scienza, studi che non avrebbero dovuto nemmeno essere pubblicati. A riprova di ciò, gli editoriali pubblicati da altre rivisite scientifiche in risposta ai risultati di JAMA avevano confermato la diffusa convinzione che soffrissero di gravi pecche metodologiche».
Se, dunque, la «good science» è rimasta nell’ombra, la politica ha vinto sulla scienza?
«Sicuramente. Il fatto che i report che puntavano alla MPI siano stati tenuti segreti per anni la dice lunga. Cercando abbastanza possiamo trovare ogni tipo di ‘‘scienziato’’, da quelli che sostengono l’esistenza di Big Foot a quelli che credono nei rapimenti alieni. Ma qualsiasi esperto competente che si dedichi a questo argomento non può che arrivare a una conclusione. Se tali studi non sono emersi è perché c’era un’agenda politica».
E tutt’oggi alla CIA non c’è comune accordo sulla questione. In una nota minore pubblicata in febbraio, a un mese dal rapporto principale, l’agenzia ha riaperto la porta alle armi a microonde. Che cosa ne pensa?
«A capo del piccolo gruppo di consulenza che si è occupato di questa analisi parallela c’era David Relman, il quale ha sostenuto la stessa teoria nel precedente studio da lui guidato: quello della National Academies of Sciences, Engineering and Medicine. È un esperto microbiologo, ma quelli implicati in una simile ricerca non sono i suoi campi. Penso semplicemente che abbia voluto arrivare alla stessa conclusione per salvarsi la faccia».
E che cosa ne pensa del caso «Pamela Spratlen»? Le vittime della sindrome dell’Avana hanno peggiorato la situazione rendendo ancora più difficile un ammissione di colpa del Governo?
«Il Governo è sotto pressione, anche da un punto di vista economico. La situazione è ormai sfuggita di mano. Gli avvocati sono da tempo entrati in gioco, chiedendo risarcimenti a Washington per non aver saputo proteggere il proprio personale. Ogni volta che si sente un rumore strano che coincide con qualsiasi lieve sintomo, dal mal di testa alla stanchezza, un nuovo caso viene segnalato. E la pressione aumenta».
Il report della CIA e la sempre più probabile accettazione che dietro alla sindrome vi sia un’isteria di massa cambierà qualcosa dal punto di vista legale?
«Non sono contro il risarcimento di alcune delle persone colpite. Perché sono effettivamente vittime. Non di un attacco sonico o a microonde, ma dell’incompetenza di Washington. Ma dove si fermerà tutto ciò? Non si fermerà. Stampa e Governo hanno creato un mostro: e sempre più gente si farà avanti per chiedere un giusto risarcimento».