Tra tensioni, dubbi e incertezze anche qualche spiraglio di pace

Buona la prima. I mediatori che stanno cercando di trovare un accordo che liberi gli ostaggi israeliani reclusi a Gaza e che fornisca una tregua alla guerra si sono dichiarati soddisfatti della prima giornata di lavoro. Domani si rincontreranno, sempre gli stessi mediatori, per tentare di chiudere l’accordo. Ma, va detto, sul tavolo ci sono ancora molti dubbi e incertezze.
Un’assenza importante
Dubbi e incertezze, si diceva. A cominciare dalla volontà di Hamas. Che ha deciso di non partecipare a questo «round» di colloqui a Doha, nel Qatar. Dopo aver annunciato l’assenza al tavolo negoziale, dopo aver chiesto di liberare da Israele pezzi da novanta come Marwan Barghouti, dopo aver detto di partecipare a condizione di accettare le condizioni già avanzate a luglio, un paio di giorni fa Yahya Sinwar, il leader politico di Hamas, ha infatti avanzato un’altra richiesta: si sarebbero seduti al tavolo delle trattative solo se Israele, preventivamente, non avrebbe attaccato Gaza, smettendo i bombardamenti. Cosa assai improbabile, anche perché la Striscia resta un territorio molto «caldo» su questo fronte. Alcuni giorni fa, ad esempio, da Gaza sono stati lanciati due missili verso Tel Aviv: uno ha raggiunto il mare al largo della città costiera, l’altro è caduto nella Striscia. Situazione ripetuta anche oggi, con un razzo partito da Gaza e caduto in area non abitata del sud di Israele.
«Un inizio promettente»
I razzi dalla Striscia, tuttavia, non hanno sfiduciato i mediatori, decisi ad andare avanti. La settimana scorsa il terzetto di presidenti che si sono presi carico della mediazione per terminare la guerra e riportare gli ostaggi a casa (Joe Biden per gli USA, Abdel Fattah al-Sisi per l’Egitto e l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani per il Qatar), hanno diffuso un comunicato nel quale invitavano le due parti in guerra a una necessaria ripresa dei colloqui, in un luogo da decidere tra Egitto e Qatar, il 15 agosto. Israele ha accettato subito e oggi al tavolo in Qatar c’erano i suoi pezzi da novanta: il capo del Mossad David Barnea e quello dello Shin Bet Ronen Bar a guidare la delegazione, composta anche dal maggiore generale (in pensione) dell’esercito Nitzan Alon, che guida la forza speciale in carica per gli ostaggi israeliani a Gaza e il consigliere senior di Netanyahu Ophir Falk. Gli americani hanno schierato il direttore della CIA William Burns e l’inviato statunitense per il Medio Oriente Brett McGurk, mentre i padroni di casa dell’emirato del golfo sono stati rappresentati dal primo ministro Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani. A chiudere il tavolo, il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamel. Sono questi due che, come fatto fino ad ora, riporteranno ad Hamas le decisioni. Dopotutto, il gruppo che controlla Gaza, anche negli altri «round» di colloqui, non si è mai seduto al tavolo insieme agli altri, per non avere negoziati diretti con gli israeliani.
Il portavoce della Casa Bianca John Kirby, al termine della giornata, ha detto che i negoziati per il cessate il fuoco e l’accordo sugli ostaggi hanno avuto «un inizio promettente», spiegando che «siamo a un punto che è generalmente accettato, dove le lacune sono nell’esecuzione dell’accordo, nei singoli movimenti muscolari che accompagnano la messa in atto dell’accordo».
Il punto di partenza
Il punto di partenza è quella proposta in tre fasi che il presidente Biden ha annunciato lo scorso 31 maggio.
Nella prima fase, in un tempo di circa sei settimane, ci sarebbe un cessate il fuoco su tutta la Striscia, con i militari israeliani che si ritirano dalle aree abitate di Gaza. Durante questo periodo, ci sarebbe il rilascio di almeno 33 ostaggi «per scopi umanitari», tra i quali donne, anziani e feriti, in cambio della liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi. Ai civili di Gaza, in questo periodo, sarebbe concesso di tornare nelle loro case e vi sarebbe pure l’aumento degli aiuti umanitari fino a 600 camion al giorno, così come l’ingresso e la realizzazione di abitazioni temporanee. Nella prima fase, si dovrebbero poi gettare le basi tra le parti per una discussione sul cessate il fuoco permanente.
Nella proposta di Biden, la seconda fase dovrebbe inoltre coincidere con la fine delle ostilità. Durante questo periodo, Hamas libererebbe tutti gli ostaggi ancora in vita, compresi i soldati, mentre l’esercito israeliano dovrebbe lasciare la Striscia.
L’ultima fase dovrebbe infine rappresentare l’inizio del piano di ricostruzione della Striscia e Hamas, in questo periodo, dovrebbe restituire a Israele i corpi degli ostaggi uccisi.
Dalla piazza ai partiti
Per Kirby «entrambe le parti hanno avuto l’opportunità di esaminare il testo raccomandato e apportare modifiche man mano che le negoziazioni proseguivano». L’esponente dell’amministrazione Biden ha anche detto che Israele ha inferto colpi significativi ad Hamas e, pur non avendo certamente eliminato la minaccia militare del gruppo che controlla Gaza, «da una prospettiva militare ha sicuramente raggiunto la stragrande maggioranza dei suoi obiettivi». Ciò, in termini diplomatici, significa che per gli USA Israele deve accettare l’accordo. Cosa che a Netanyahu hanno chiesto, anche quest'oggi, non solo la piazza, ma pure i partiti, a cominciare da quello dell’ex membro del gabinetto Benny Gantz.
Qualche spiraglio per la pace, se Hamas lo vorrà e non si tirerà indietro, si sta dunque aprendo. Mentre alla finestra restano Teheran e gli Hezbollah, pronti sia ad abbassare le armi in caso di accordo, sia ad attaccare se non si dovesse raggiungere l’intesa.
La preoccupazione, inoltre, non è solo quella che Hamas accetti, ma anche che rispetti l’accordo, visto che a novembre dopo una settimana di tregua aveva rotto l’intesa e ripreso i combattimenti.